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IL MISTERO DELLE ISOLE AURORAS (di F. Lamendola)
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IL MISTERO DELLE ISOLE AURORAS

 

(Articolo pubblicato sul numero 3,  del 2004 , anno LIX, de “Il Polo”, rivista dell’Istituto Geografico Polare fondata da Silvio Zavatti).

          LA SCOPERTA.

 

          Una giornata imprecisata del 1762 il veliero spagnolo Aurora , erede dei gloriosi galeoni che nei secoli sedicesimo e diciassettesimo solcavano i mari, assicurando i collegamenti fra la Penisola Iberica  e il suo Impero coloniale "sul quale il Sole non tramonta mai”, si sta inoltrando sempre più nelle inquietanti solitudini dell’Atlantico meridionale. Trascinato dalla furia della tempesta, naviga completamente fuori rotta, qualcosa come 2.000 chilometri a est delle Falkland (1), in un tratto di mare pressoché inesplorato. Gl’implacabili venti di ponente, che a quelle latitudini non hanno mai sosta, hanno afferrato le pur ridotte velature, lacerandole, e hanno sospinto la nave oltre i “quaranta ruggenti”, sin nel cuore dei “cinquanta urlanti”: una cintura di acque perennemente burrascose, con onde alte fino a 10 metri e anche più, e con raffiche di pioggia gelata mista a nevischio e ghiaccio che  corre lungo il 50° parallelo Sud. Mentre gli alberi scricchiolano sotto l’assalto del vento e lo scafo rolla e beccheggia fra i cavalloni come un guscio di noce, il sartiame a brandelli, il timoniere e le vedette si sforzano di penetrare con gli sguardi entro i banchi insidiosi di nebbia che celano il mortale pericolo degli iceberg, gli enormi blocchi di ghiaccio galleggianti, che le correnti hanno strappato dalla ciclopica fronte della banchisa antartica. Ma ecco che d’improvviso, come suole accadere in quei mari strani e remoti, uno squarcio inatteso fra le nubi annuncia una effimera tregua degli elementi: la violenza del vento si attenua, le onde smorzano la loro furia e un vasto lembo   di cielo azzurro si apre come un sipario, profondo e terso come nessun pittore saprebbe raffigurarlo sulla tela, rivelando un’ampiezza di orizzonte incomparabile. Il comandante e l’equipaggio, stremati dalla fatica, dal freddo e dallo scorbuto, guardano sbalorditi quel prodigio di luce, mentre la Natura stessa sembra trattenere il fiato, come in attesa di un’arcana rivelazione. Perché  laggiù, dove cielo e mare sembrano confondersi in un abbraccio indistinto, è apparsa – visione emozionante  quant’altre mai – una terra, una terra sconosciuta e che nessuno si aspettava di avvistare.

          Superato lo stupore iniziale, gli uomini hanno modo di notare che non si tratta di un’unica terra, ma di un gruppo di isole, che il capitano decide di battezzare prontamente col nome della propria nave: las Auroras. Nessun atlante nautico, infatti, le riporta; nessun navigatore le aveva mai segnalate (2). Non vi è tempo, del resto, di rilevarne adeguatamente la posizione, né tanto meno di accostare per tentare uno sbarco. Il mare incollerito, geloso dei suoi segreti, si sta mettendo nuovamente al brutto: troppo rischioso avvicinarsi a riva per cercare un ancoraggio, non parliamo poi di calare una scialuppa. E come se non bastasse l’inclemenza degli elementi, vi è sempre il pericolo di fare qualche brutto incontro: la Spagna di Carlo III di Borbone (1759-88), despota illuminato, è in stato di guerra con la Gran Bretagna del re Giorgio III di Hannover (1760-1815), il cui ministro William Pitt il Vecchio, pur costretto alle dimissioni, ha acceso nei suoi compatrioti una intransigente volontà di supremazia marittima e coloniale sul blocco franco-spagnolo. (3) Sarebbe oltremodo spiacevole rischiare un duello con qualche corvetta di Sua Maestà britannica e sfidare il destino in un confronto coi cannoni inglesi, dopo essere sfuggiti con tanta pena alla morsa dei procellosi mari antartici. Nessuno, quindi, a bordo dell’Aurora, desidera minimamente trattenersi in quelle acque un minuto in più dello stretto necessario: e volta la prua in direzione di latitudini meno inclementi, ben presto le misteriose isole scompaiono alla vista come un miraggio, inghiottite dall’orizzonte marino.

 

           IL CONTESTO STORICO.-

         

           Non era quello il primo avvistamento di terre sconosciute nelle vastità oceaniche dell’emisfero Sud, anzi era l’ultimo anello di una lunga catena di scoperte (e talvolta di successive scomparse) che avevano caratterizzato la ricerca affannosa e instancabile del misterioso continente australe che, si diceva, doveva esistere per fare da contrappeso alla massa dei continenti boreali: Terra Australis Incognita, o meglio, come riportavano ottimisticamente i cartografi del tempo: Terra Australis Necdum Cognita, ossia Terra Australe non ancora conosciuta, ma destinata ad esserlo, presto o tardi. (4) Tutto era cominciato nel 1520, quando Ferdinando Magellano, attraversando lo Stretto che porta tuttora il suo nome alla ricerca del Mare del Sud, ossia l’Oceano Pacifico ( intravisto la prima volta da Vasco Nuñez de Balboa nel 1513, dall’alto di una collina del Darién) (5), aveva osservato sulla sua sinistra, durante quei trentotto giorni di navigazione tra monti innevati che spingevano sino al mare le fronti dei loro ghiacciai, una terra misteriosa, ove la notte brillavano i fuochi degli accampamenti indigeni, e l’aveva chiamata Tierra de los Fuegos, Terra dei Fuochi (più tardi, del Fuoco).(6)  Era quella, senza dubbio, la propaggine settentrionale del mitico continente australe, la cui esistenza era stata ipotizzata da scienziati, filosofi e cartografi dall’epoca del grande astronomo e geografo Tolomeo (II sec. d. C.) in avanti. (7).  Poi, nel 1577, in pieno inverno australe (cioè nell’agosto), il corsaro inglese Francis Drake aveva ripetuto l’impresa con una flotta di cinque navi, che però, all’uscita dello Stretto di Magellano, era stata dispersa dalle furiose tempeste; l’ammiraglia era stata respinta verso sud, nello Stretto che oggi porta il suo nome, e ciò era valso, sia pure involontariamente, a dimostrare la natura insulare della Terra del Fuoco. (8) Se tuttavia quest’ultima non poteva più, evidentemente, esser considerata come facente parte della Terra Australe, in compenso Drake aveva potuto scorgere, nell’infuriare della tempesta, un’altra terra ancor più meridionale, che ben poteva, e in un certo senso doveva, esserne l’estremità settentrionale. (9) Che poi un continente posto a mezzogiorno del Capo Horn, cioè del 55° parallelo Sud, sarebbe stato – per motivi climatici – ben poco ospitale ed attraente, poco importava; la fantasia suppliva alle carenze della logica, visto che ancora nel XVII secolo gli artisti europei raffiguravano appunto l’Isola di Horn, la più australe della Terra del Fuoco, come coperta da una ricca vegetazione e abitata da indigeni dall’aspetto abbastanza evoluto, mentre un semplice ragionamento avrebbe dovuto suggerire ch’essa doveva essere, come in realtà è, totalmente brulla e disabitata. (10) Non aveva forse rappresentato il celebre geografo francese Oronteus Finaeus, nel suo mappamondo del 1531, la Terra Australis come un’enorme massa continentale, attraversata da catene di montagne e percorsa da grandi fiumi, che nel Pacifico e nell’Oceano Indiano raggiungeva le latitudini temperate, e sfiorava, addirittura, quelle con clima sub-tropicale? (11) Non aveva fatto la stessa cosa  il cartografo fiammingo Abramo Ortelio nel suo mappamondo del 1564,  in cui il continente meridionale  giungeva quasi a lambire l’Equatore, non lungi dalle Isole della Sonda? (12)  E non era forse partito, il navigatore spagnolo Alvaro Mendana de Neira, per ben due volte, nel 1567 e nel 1595, dal Perù alla volta della favolosa Terra Australe e delle sue inesauribili ricchezze, lasciando infine la vita in una delle Isole Santa Cruz, ch’egli credette appunto essere una parte di quel continente.? (13) Oggi si pensa che quel che vide, o intravvide, il Drake, peraltro con pessime condizioni di visibilità, probabilmente non erano altro che le Isole Diego Ramìrez, un minuscolo arcipelago sperduto poco a sud di Capo Horn (14); ma allora ogni notizia di avvistamento di terre, sia pure incerta e confusa,  in quei mari meridionali, veniva interpretata come un altro tassello del mosaico formante la Terra Australis Incognita. Un filosofo, infatti, direbbe che gli uomini non credono in ciò che vedono, ma in ciò che vogliono vedere, in ciò che meglio serve a mantenere in vita i loro desideri più segreti, siano pur essi delle chimere. E come biasimarli? Scrive René Thévenin: “I paesi leggendari… Li abbiamo scorti all’inizio della civiltà. Li ritroviamo all’apogeo della nostra. Come possiamo credere che non dureranno tanto quanto l’uomo, poiché è in noi stessi che vivono?” (15)

          Così, ad esempio, quando il navigatore francese Bouvet de Lozier, al servizio della Compagnia delle Indie, nel 1738 scoprì, molto a sud del Capo di Buona Speranza, una terra ghiacciata e desolata cui dette il suo nome e che poi fu, per quasi due secoli, più volte perduta e ritrovata, simile in questo a un fantasma del mare), si affrettò a riferirne in patria in termini entusiastici e, benché non vi fosse nemmeno sbarcato, si disse certo delle sue potenzialità economiche. Ne seguì una penosa vicenda di polemiche ed accuse, da cui la sua credibilità era uscita gravemente compromessa: e tuttavia un altro tassello della Terra Australis era stato scoperto ed aggiunto ai precedenti – almeno per quanti non volevano arrendersi a veder svanire una leggenda così suggestiva. (16) Ma ormai l’epoca dei Lumi batteva alle porte: l’arte della navigazione era divenuta una scienza esigente e sempre più rigorosa: James Cook, coi suoi tre memorabili viaggi alle latitudini australi, s’incaricò di sfatarla una volta per sempre, fra il 1768 e il 1769, l’anno della sua tragica morte alle Isole Hawaii.(17)

          Un mito, peraltro, non può svanire di colpo: poiché affonda le sue radici, come un albero millenario, nelle profondità dell’inconscio collettivo, esso tramonta poco a poco, mandando qualche ultimo bagliore prima di eclissarsi. Fu così che, fra la seconda metà del XVIII secolo e la prima metà del XI, continuarono a moltiplicarsi gli avvistamenti di terre, di isole e arcipelaghi misteriosi, quasi estremi lembi smarriti del grandioso, perduto continente. Tale fu il caso delle isole Emerald, Nimrod e Dougherty nell’Oceano Pacifico (18); tale fu, appunto, il caso delle Isole Auroras.

 

           LA CONFERMA.-

 

L’avvistamento delle Auroras, segnalato alla Società Idrografica di Madrid, non ebbe più seguito per una trentina d’anni. Ma nel 1790 il destino volle che un’altra nave battente bandiera di Sua Maestà Cattolica (questa volta, si trattava di Carlo IV di Borbone) si trovasse ad incrociare in quelle acque remote, e avvistasse a sua volta le isole. Si trattava della Princess, appartenente alla Reale Compagnia delle Filippine, ed era al comando di Manuel de Oyarvido, un uomo di mare più scrupoloso, o forse più fortunato, del suo predecessore. Infatti, sebbene neanche lui si sentisse in grado di accostare per tentare uno sbarco, condizione allora necessaria (anche se non di per sè sufficiente)  per una rivendicazione ufficiale di sovranità presso le cancellerie internazionali, prima di abbandonare quelle acque si preoccupò di rilevare accuratamente la posizione delle Auroras, trascrivendo poi le sue osservazioni sul giornale di bordo. Rientrato al Callao, sulla costa peruviana, de Oyarvido si recò a Lima e sottopose il proprio giornale di bordo alle autorità competenti della locale sezione della Società Idrografica di Madrid, mostrando che la Marina spagnola stava uscendo (proprio al suo tramonto!) da un certo qual clima di approssimazione, per mettersi al pari con lo spirito scientifico delle altre grandi marine europee, l’inglese e la francese  (che produssero infatti, in quegli anni, due giganti della statura di Cook e di Bougainville). (19) Il materiale fornito dal capitano della Princess venne incluso in una scrupolosa relazione che reca la data del 1809 e che fornì la base per una ricognizione dell’arcipelago varata appositamente, quattro anni dopo, col preciso scopo di cartografarlo e verificarne le condizioni di approdo e di eventuale abitabilità e sfruttamento economico. (20) Bisogna anche dire che la Spagna, all’epoca, conscia della sua debolezza quale potenza navale e della precarietà del suo stesso Impero coloniale (il cui fulcro, il Vicereame del Perù, era stato squassato dalla pericolosissima rivolta indiana guidata da Tupac Amaru, solo pochi anni prima) (21), era sempre assai cauta, per non dire riluttante, a divulgare le proprie scoperte marittime e si mostrava quanto mai gelosa di ogni informazione geografica che, venuta in mano delle potenze sue rivali, effettive o potenziali, avrebbe potuto esser da quelle utilizzata in danno delle sue prerogative e delle sue aspirazioni, che erano assai più ambiziose delle sue reali possibilità politico-militari. (22)

          Giungiamo così al 1794: in Europa infuria la Rivoluzione francese, anche se il governo giacobino si avvia, col colpo di Stato del Termidoro, alla sua drammatica caduta, per esser sostituito dal Direttorio d’ispirazione borghese e moderata (almeno in politica economica e sociale). La corvetta Atrevida, sempre della Compagnia Reale delle Filippine, salpa espressamente alla volta delle Auroras, al comando del capitano J. De Bustamente. Questi mostra di essere un uomo abile e competente, all’altezza del compito affidatogli: certo, possiede il vantaggio inestimabile – rispetto ai suoi predecessori - di non esser capitato in quei paraggi per un semplice caso. Ecco quanto scrive egli stesso nella propria relazione, dopo essere giunto, con l’Atrevida, in vista delle isole, che si trovavano proprio là ove de Oyarvido le aveva indicate: “Eseguimmo tutti i rilevamenti necessari e misurammo con i cronometri la differenza di longitudine tra queste isole e il porto di Soledad nelle Malvine. Le isole sono tre: si trovano molto vicine e sullo stesso meridiano; il centro di una di esse è piuttosto basso e le altre due possono scorgersi a nove leghe di distanza.” (23)

           Riportiamo qui di seguito le coordinate geografiche fornite da Bustamente:

 

  •  Isola settentrionale:   52° 37’ 24” latitudine Sud; e  47° 43’ 15” longitudine Ovest;

  •  Isola centrale:            53° 02’ 40” latitudine Sud; e  47° 55’ 15” longitudine Ovest;

  •  Isola meridionale:     53°  15’ 22” latitudine Sud; e  47° 57’ 15” longitudine Ovest.

          

           Nessun cenno di entusiasmo trapela dalle parole con cui il comandante spagnolo si esprime nella sua relazione, peraltro accurata e scrupolosa. Se egli si preoccupa di dare un nome proprio alle “sue” isole (o almeno a due di esse), non si può dire che si sia lambiccato molto il cervello per sforzare la propria fantasia: chiama “Isola Nuova” quella più settentrionale, “Isola Bassa” quella centrale e rinuncia a trovare una denominazione per la terza, che rimane, banalmente, una semplice “Isola Meridionale”.(24) Egli descrive le Auroras (a dispetto del loro nome poetico e un po’ sognante)  come interamente fredde e scure, parzialmente ricoperte di neve e per giunta esposte ai gelidi venti occidentali. (25)  Non è certo difficile, leggendo la relazione  del buon Bustamente, né particolarmente malizioso ricavarne l’impressione che lui, il suo pilota e i suoi ufficiali non avessero alcun desiderio di prolungare la sosta in quelle acque più dello strettissimo necessario, tanto è vero che nemmeno questa volta fu presa in considerazione l’opportunità di uno sbarco. Eppure le condizioni del mare, si direbbe, non dovevano essere poi così cattive, dal momento che era stato possibile effettuare i rilevamenti cronometrici con tanta precisione, quasi con pignoleria. Pertanto l’unica spiegazione a tanta trascuratezza è che uno sbarco appariva del tutto inutile, vista l’assoluta sterilità dell’arcipelago. Non era necessario l’atto formale di piantare la bandiera di Spagna, perché quelle isole sperdute nel gelo e nella nebbia non avrebbero mai potuto costituire una risorsa, bensì soltanto l’ennesimo pericolo per la navigazione, da aggiungere a quelli delle tempeste della nebbia e dei ghiacci galleggianti. No, non valeva la pena di sbarcare, con l’Atrevida – probabilmente - già messa a dura prova dai “cinquanta urlanti” e dai molti mesi di navigazione in mare aperto, senza mai entrare in porto o vedere una costa amica; con le velature incrostate di ghiaccio e con l’equipaggio esausto e demoralizzato. Ma occorreva riportare le isole con la massima cura possibile sulle carte nautiche, per evitare che qualche nave, in futuro, potesse rischiarvi il naufragio, complice la foschia o l’oscurità delle lunghe notti sub-antartiche. Ciò che fu fatto con tempestività e competenza.

 

           PRIME SMENTITE.

 

           Di fatto, però, le Auroras stavano per giocare una imprevedibile sorpresa ai naviganti dell’Atlantico meridionale: quella di diventare sempre più elusive e, alla fine, di scomparire per sempre. Dopo il viaggio di rilevamento della corvetta Atrevida, l’arcipelago fu visto ancora soltanto due volte, a metà e verso la fine del XIX secolo: poi, più nulla.

           Il primo a rimanere beffato dalle Auroras fu, nel 1822-23, l’illustre navigatore polare James Weddell, inglese, che ha legato il proprio nome al rilievo delle Orcadi Australi e soprattutto alla gloria di essere per primo penetrato nell’ampia ingolfatura che porta ancor oggi il suo nome, il Mare di Weddell, spingendosi fino alla latitudine record di 74° e 15’ Sud. Egli desiderava ritrovare le Auroras e migliorarne ulteriormente la conoscenza: era intrigato dalla scoperta dei marinai spagnoli e al tempo stesso nutriva delle perplessità su quanto da loro riferito. Weddell era uno dei più provati marinai di quei mari ostili, che contribuì non poco a svelare: la sua patria, disconoscente, non gli ha dedicato neppure un articolo della Encyclopaedia Britannica. (26) Ex ufficiale della marina da guerra, aveva la stoffa dello studioso (da lui prese il nome un particolare tipo di foca); trentaquattrenne, era passato al servizio di una ditta di Edimburgo che commerciava in grasso e olio di foca. Le navi dedite a quel tipo di caccia (ma sarebbe più esatto adoperare la parola sterminio) erano, quindi, progettate e costruite espressamente per la navigazione ai limiti del pack antartico, con scafi rinforzati e particolarmente robusti. Sfruttando la circostanza di un inverno australe eccezionalmente mite, il 18 febbraio col brigantino Jane e con il cutter Beaufoy si spinse più a Sud di chiunque altro prima di lui e battezzò quel vasto specchio d’acqua “Mare di Re Giorgio IV”: sarà poi l’ammirazione dei posteri a rendergli quanto sfuggito alla sua modestia, ribattezzandolo col suo nome, nel 1900. (27)

           Il desiderio di James Weddell di andare a fondo nella faccenda delle Isole Auroras andò, comunque, frustrato: per quanto incrociasse scrupolosamente nella posizione indicata dall’Atrevida, nulla gli apparve se non cielo e mare. Nessun indizio di terra, neanche bordeggiando pazientemente in lungo e in largo.  Tuttavia volle esser certo di non trascurare alcuna possibilità e decise di tener conto di un largo margine di errore da parte di Bustamente: non era laggiù in veste di scienziato ma di cacciatore di foche e, poiché le coste delle Isole Sandwich Australi erano già state quasi spopolate dai suoi spietati colleghi, desiderava con tutta l’anima trovare un lembo di terra che non fosse già stato battuto e ove i pinnipedi fossero, perciò, ancora numerosi. (28) Ma non ci fu nulla da fare: pareva che quelle isole, se pure erano reali, si fossero inabissate,  portando seco il loro mistero. Ecco quanto scrisse malinconicamente nel suo diario di bordo, mentre volgeva definitivamente la prora del suo brigantino Jane, di 160 tonnellate, a Occidente, verso Port Stanley: “Dopo aver esplorato con diligenza tutta la zona in cui si supponeva dovessero trovarsi le Auroras, conclusi che gli scopritori dovevano essere stati tratti in inganno dalle apparenze; ho ritenuto perciò ogni ulteriore ricerca in questo tratto di mare un imprevidente spreco di tempo; e con soddisfazione dei miei ufficiali e marinai, ho fatto rotta verso le Isole Falkland.” (29)

           E tuttavia, forse il capitano inglese era stato mosso da altre ragioni, meno “ufficiali” e anche meno confessabili, per ostinarsi così tanto nella vana ricerca delle Auroras. Il loro nome, difatti, da alcuni anni era associato a quello di un tesoro scomparso; e questa diceria, o leggenda che fosse, ebbe un curioso influsso nella genesi di un capolavoro della letteratura in lingua inglese. Osserva in proposito lo scrittore Peter Haining: “Quanto ai marinai [del brigantino Jane ], esisteva forse una inconscia ragione per desiderare che le Auroras esistessero realmente a causa della leggenda secondo la quale un galeone spagnolo, il San Telmo, era naufragato sulle loro coste nel 1819, con un carico enorme d’oro e di argento. E’ stata questa leggenda, più che il mistero delle Auroras, a ispirare Edgar Allan Poe quando scrisse il suo unico romanzo completo, Le avventure di Arthur Gordon Pym da Nantucket, nel 1838.” (30)

 

             LA CONTROVERSIA.

 

              Abbiamo detto che le Isole Auroras si lasciarono vedere ancora due volte, prima di uscire per sempre dalla storia delle navigazioni oceaniche; o, per meglio dire, due sono le ulteriori segnalazioni certe, che vennero avanzate con una certa dovizia di particolari e, si direbbe, in perfetta buona fede.

               La prima viene effettuata, nel dicembre 1856, dalla nave Helen Baird. Sul libro di bordo qualcuno, probabilmente il comandante, ha vergato questa annotazione: “Alle quattro antimeridiane il capitano in seconda fu avvertito della presenza di icebergs dal lato sottovento; recatosi sul ponte, dichiarò che si trattava delle Auroras coperte di neve.” (31) Parole un po’ enigmatiche, che lasciano in dubbio su quel che effettivamente vide l’ufficiale in seconda; si deduce che le condizioni di visibilità non dovevano essere delle migliori. E dov’era il comandante? Quanto agli uomini dell’equipaggio, la loro impressione fu che si trattasse di cinque, e non tre, piccole isole: Risulta infatti che su alcune carte spagnole dell’epoca le Auroras sono riportate come un arcipelago formato da cinque isole. Ma l’interesse della Spagna per quei mari australi andava rapidamente scemando, dopo la perdita irreparabile del suo Impero coloniale nelle Americhe; e così le sue conoscenze di prima mano relative alla navigazione sulle rotte atlantiche.

                La cartografia internazionale, comunque, cominciava a trovarsi in serio imbarazzo: il “comportamento” di quelle remote isolette tendeva a farsi sempre più strano. Alcuni atlanti le avevano accettate senz’altro nella categoria delle realtà certe. La Rivista Nautica britannica, ad esempio, agli inizi del XIX secolo aveva affermato che “il fatto che esistessero era tanto poco messo in dubbio quanto si poteva dubitare della stessa Australia.” (32). Non tutti, però, condividevano questa sicurezza. Il mancato avvistamento da parte di James Weddell, nonostante le lunghe ricerche e la sua fama di esperto lupo di mare, aveva inferto un colpo durissimo alla credibilità della loro esistenza. Inoltre c’era la circostanza che dal 1794 al 1856, quindi in un arco di tempo di ben sessant’anni, di fatto mancavano altri avvistamenti certi e documentati.

           Passano altri trentasei anni: siamo arrivati così al 1892. Questa volta è la nave Gladys del capitano B. H. Hatfield che, navigando in quei paraggi, le avvista e ne riconosce la posizione con un notevole grado di accuratezza. Scrive infatti sul giornale di bordo: “26 giugno. Latitudine 52° 55’ Sud, longitudine 49° 10’ Ovest, viene avvistata terra dalla parte sottovento; si direbbe un’isola dalla forma allungata con due alture che si elevano sulla sua sommità, dividendo l’isola in tre parti in modo da farla sembrare come se fossero tre terre distinte Le colline non avevano traccia di neve. Alle otto antimeridiane scopriamo un’altra isola lontana circa dieci miglia… Sembra esistere la possibilità di un passaggio tra quest’ultima isola e l’altra più lunga.” (33) C’è da rimanere sconcertati: dapprima le osservazioni del capitano Hatfield sembrano confermare i precedenti avvistamenti, chiarendo però che le Auroras non sono tre, ma si tratta di un’unica terra dal profilo dentellato; subito dopo, però, compare questa seconda isola che confonde tutto il quadro e getta un ulteriore elemento di perplessità, essendo del tutto in contrasto con quanto riferito da Bustamente. E poi, se distava dall’isola principale ben 10 miglia, perché mai avrebbero dovuto esservi difficoltà ad attraversare lo stretto fra le due? Quanto alle coordinate geografiche, rispetto a quelle fornite dal comandante dell’Atrevida si direbbe che, più o meno, ci siamo: vi è un errore di pochi primi di grado per la latitudine, e di circa due gradi di meridiano per la longitudine: un errore trascurabile e spiegabilissimo, data la strumentazione dell’epoca e le presumibili condizioni del mare, mai tranquillo verso i “cinquanta urlanti”.

           A questo punto finisce la storia delle Isole Auroras e comincia la leggenda: una di quelle che i marinai di un tempo si raccontavano nelle fumose taverne dei porti, nelle lunghe sere d’inverno, con un misto difficilmente separabile di credulità e scetticismo. Da quell’ultimo decennio dell’Ottocento, infatti, più nulla: il sipario scende sul misterioso arcipelago. Poco alla volta, ma inesorabilmente, le Isole Auroras scompaiono dalle pagine degli atlanti geografici e delle carte di navigazione dell’Oceano Atlantico meridionale.

 

            IPOTESI E CONCLUSIONI.-

         

             Il caso delle Auroras, per quanto affascinante, rientra in una ricca casistica di “isole fantasma”, che sono apparse e scomparse, di quando in quando, su tutti i mari del globo, specialmente in quelli artici ed antartici. Solo per limitarci all’Atlantico meridionale, conosciamo il caso di almeno altre tre “isole fantasma”: Saxemberg, L’Isola Grande e, infine, Bouvet: Le prime due si sono eclissate, come le Auroras; la terza, dopo un’alterna vicenda di smarrimenti e ritrovamenti, è “rimasta” definitivamente. Vediamoli.

           L’isola Saxemberg fu scoperta nel 1670 da un navigatore olandese, Lindeman, circa 600 miglia a nord-ovest di Tristan da Cunha; non più rivista per oltre centotrenta anni, fu di nuovo segnalata da due velieri statunitensi ai primi del XIX secolo: il Fanny nel 1804 e il Columbus nel 1809; poi, ancora, dalla nave inglese True Briton il cui comandante, Head, ne confermò sia la posizione che le caratteristiche topografiche (un’alta montagna posta al centro di essa); dopo di che scomparve per sempre. (34) La cosiddetta Isola Grande venne scoperta nel 1675, circa 1500 chilometri a sud-est dalla foce del Rìo de la Plata (e quindi quasi a metà strada fra questa e le Auroras), da  Antonio de La Roche, colui che è ricordato come lo scopritore della Georgia Australe; ma anche di questa terra non si è mai più saputo nulla. (35) Quanto a Bouvet, la storia dei suoi avvistamenti costituisce un vero e proprio rompicapo. Scoperta dall’omonimo navigatore francese nel 1739, ritrovata da una spedizione inglese nel 1808, fu protagonista di un’incredibile altalena di conferme e smentite sino al 1898, quando la nave tedesca Valdivia ne determinò scientificamente la posizione. I Norvegesi (interessati a quelle acque per via della caccia alle balene) vi effettuarono uno sbarco nel 1926, e nel 1928 la dichiararono sotto la loro sovranità.(36) Problematica, invece, resta l’esistenza di una piccola isola vicina alla Bouvet, chiamata isola Thompson dal capitano inglese G. Norris nel 1825. (37)

           E veniamo ai tentativi di spiegazione del “fenomeno Auroras”, valutando, per ciascuno di essi, gli elementi a favore e quelli contrari.

 

1)     Errore di rilevamento.- E’ la più semplice, la più naturale delle spiegazioni. Il mare agitato, le nebbie, la strumentazione difettosa, il poco tempo a disposizione possono aver falsato, e di molto, il rilevamento delle coordinate geografiche, specie al tempo della navigazione a vela. Sennonché, resta il problema di dove “spostare” le isole viste e identificate come le Auroras. In quali altre isole realmente esistenti bisogna identificarle? Qui s’incontrano delle gravi difficoltà. Gli unici possibili “candidati”, per un raggio di centinaia di chilometri, sono gli Shag Rocks, i cosiddetti Scogli Shag: troppo piccoli e troppo spostati verso Est. Si ricordi che Hatfield aveva riconosciuto un’unica isola; e una seconda, più piccola, alla distanza di dieci miglia. D’altra parte, come è possibile scambiare dei semplici scogli per delle vere isole, attraversate da colline parzialmente coperte di neve? (38)

 

2)     Confusione con degli iceberg.- Anche questa è una spiegazione semplice e quasi ovvia, data la latitudine interessata. Vi si oppongono però due considerazioni assolutamente risolutive. La prima è che il diario di bordo del capitano Hatfield, del Gladys, afferma che le colline, in quel caso, non mostravano traccia di neve (e, quindi, a maggior ragione, di ghiaccio). La seconda è che gli iceberg non restano certo “ancorati” negli stessi luoghi, ma, ovviamente, si spostano con notevole rapidità, trascinati dalle correnti (39). Ora, almeno due relazioni, quella dell’Atrevida e quella del Gladys (vergate, si badi, a novantotto anni di distanza l’una dall’altra) localizzano le Auroras nella medesima posizione. Possiamo immaginare un gruppo di iceberg che se ne rimane fermo per quasi un secolo?

 

3)     Un miraggio.- In particolari condizioni atmosferiche (si pensi allo spettacolo clamoroso delle Aurore polari) è possibile vedere cose che non esistono. Il riflesso del cielo, delle nuvole può ingannare la vista, mostrando all’orizzonte marino terre inesistenti. Strana, però, molto strana la circostanza che diverse navi, in tempi diversi, siano state vittime dello stesso miraggio, nel medesimo luogo. (Su questa ipotesi, vedi anche la nota 25 del presente articolo).

 

4)     Frode volontaria.- E’ esclusa. Non si tratta di vaghi racconti di balenieri, come nel caso dell’isola Dougherty o di altre pretese isolette all’estremità meridionale del Pacifico. (40) Abbiamo invece a che fare con le relazioni di autorevoli comandanti di diverse marine, sia da guerra che commerciali, e con un resoconto ufficiale della Società Idrografica spagnola. La bona fides degli interessati è del tutto fuori discussione.

 

 

5)     Suggestione mitologica.- Il mito dei paesi leggendari, diceva Thévenin, è antico quanto l’uomo, poiché creato, inconsciamente, dalle sue stesse aspettative. Ed è noto che Carl Gustav Jung ha formulato una teoria analoga per spiegare i sempre più numerosi avvistamenti di Oggetti Volanti Non Identificati (U.F.O.) avvenuti nella seconda metà del XX secolo (ma in realtà, antichissimi anch’essi), fenomeno, a suo dire, legato ai materiali archetipici esistenti nell’Inconscio Collettivo (41). Sennonché, se questa interpretazione può ammettersi per paesi vasti e attraenti, come la Terra Australis Incognita, ben difficile è applicarla al nostro caso. Le Auroras, di attraente, non avevano che il nome: erano un luogo unanimemente descritto come desolato e inospitale. Inoltre, qui non ci troviamo in presenza di vaghe tradizioni orali, ma di una serie di avvistamenti e ricognizioni puntuali e, queste ultime, ben documentate, alcune delle quali vennero condotte con criteri rigorosamente scientifici e da personale di marina altamente qualificato. Anche questa spiegazione, dunque, appare senz’altro insostenibile.

 

6)     Inabissamento di isole vulcaniche.- La letteratura scientifica documenta non pochi casi del genere: per la cosiddetta Isola Giulia o Ferdinandea, emersa nel centro del Mediterraneo nel 1832, e che diede addirittura origine a una disputa diplomatica fra la Gran Bretagna (già in possesso di Malta) ed il Regno di Napoli, prima di inabissarsi lasciando a bocca aperta i due contendenti. (42) Più spettacolare ancora il caso dell’isola polinesiana di Falcon, nell’arcipelago delle Tonga. Scrive l’Almagià: “Sorta nel 1877-78 sul luogo ove era prima un banco sottomarino, elevatasi fino a 75 m. sul mare, poi distrutta interamente dall’erosione marina (1898); riformatasi nuovamente qualche anno dopo, scomparsa ancora nel 1913 e risorta nel 1927, in seguito ad una violenta eruzione, sotto forma di un cono alto 110 m. con cratere, oggi di nuovo [1961, nostra nota ] attaccato con violenza dai flutti.” (43) Un caso ancor più recente, e documentato dal vivo da scienziati e fotografi di ogni parte del mondo, è poi quello dell’Isola Surtsey, emersa mediante un’eruzione vulcanica sottomarina, 33 chilometri al largo della costa meridionale dell’Islanda, nel 1963. Oggi l’isola è pienamente consolidata e la vegetazione pioniera ne ha già rivestito le pendici, a pochi anni dal raffreddamento della lava incandescente. (44)  Può essere stato, questo, anche il caso delle Isole Auroras? Una serie di eruzioni vulcaniche  potrebbero averle spinte su dal fondale marino, per poi farle riemergere mano a mano che i marosi le assalivano con estrema violenza, sgretolandole, in una lotta titanica fra gli elementi della natura che ricorda  i giorni della creazione del mondo- lotta in cui la vittoria rimase, alfine, al regno di Poseidone? Stando ai rilevamenti sottomarini effettuati col radioscandaglio, è accertata l’esistenza di una dorsale sottomarina, di origine vulcanica, che collega la piattaforma continentale sud-americana (su cui giacciono le Isole Falkland)  con la Georgia Australe ed oltre, passando per gli Scogli Shag. Essa costituisce, in effetti, la catena sottomarina principale collegante la Terra del Fuoco con la Penisola Antartica e descrive un vasto arco rivolto ad Est dello Stretto di Drake (la “via” più breve fra Sud America e Antartide, ma non quella seguita dall’orografia sottomarina), con la convessità rivolta all’esterno, appartiene alla grande “Cintura di Fuoco dell’Oceano Pacifico”, il maggiore sistema vulcanico dell’intero pianeta terrestre. Le Isole Auroras avrebbero dovuto trovarsi esattamente sull’allineamento Isole Falkland-Georgia Australe- Sanwich Australi-Orcadi Australi-Shetland Australi. Una regione tettonicamente giovane, instabile, soggetta a fenomeni geologici d’imprevedibile portata. E’ questo, dunque, il segreto delle Isole Auroras? Furono create e distrutte alternativamente dalle forze endogene del Pianeta? E, in tal caso, possiamo aspettarci che un giorno o l’altro, chissà quando, riemergeranno d’improvviso, così come  improvvisamente si sono inabissate, sottraendosi allo sguardo degli uomini? Certo, la spiegazione del sollevamento vulcanico sottomarino è, al momento, non diciamo la più probabile, ma la meno inverosimile. Di qui a suggerire che possa rispondere a tutti gli interrogativi rimasti in sospeso, però, la distanza è ancora grande. I misteri della natura, contrariamente a quanto la vulgata scientista e ultrapositivista pretenderebbe, sono ancora ben lungi dall’essere stati chiariti in modo soddisfacente; o almeno buona parte di essi. La strada dell’umana conoscenza è ancora lunga e richiede umiltà e pazienza infinite. Forse, alle generazioni che verranno, la nostra hybris, o smisurato orgoglio, di voler capire tutto e subito, di voler dominare ogni cosa, apparirà simile a una smania di bambini volubili e impazienti (45): una lente deformante che s’interpone, invisibile ma fatale, tra il nostro essere (che non è fatto di sola percezione sensoriale o di sola ragione strumentale) e  l’intima realtà del Tutto.

 

                                                                            FRANCESCO LAMENDOLA

 

 

 

       NOTE

               

 

1.     Le Isole Falkland vennero scoperte, probabilmente, dal navigatore inglese John Davis, che ne dette notizia nel 1592; nelle carte nautiche più antiche sono semplicemente indicate come Isole Meridionali, Southern Islands. Ricevettero il nome attuale dopo essere state visitate, nel 1690, da un altro inglese, John Strong, in onore dell’allora tesoriere della Marina britannica, lord Falkland; o meglio, questo nome fu imposto al canale centrale che separa le due isole maggiori (ancor oggi, banalmente, chiamate East e West Falkland), e più tardi s’impose all’intero arcipelago. Inizialmente l’isola occidentale era chiamata Pepys, dal nome del famoso diarista Samuel Pepys, nato nel 1633 e morto nel 1703 (cfr. SAMUEL JOHNSON, Riflessioni sugli ultimi fatti relativi alle Isole Falkland, Milano, Adelphi, 1982, p. 36 nota).  Nel 1764 vi si stabilirono alcuni coloni francesi di Saint-Malo, facenti parte della spedizione di Bougainville, per cui le isole furono ribattezzate Malouines. Ritiratisi i Francesi, la colonia nel 1767 passò agli Spagnoli, che ribattezzarono Port Louis col nome di Puerto Soledad, e tutto l’arcipelago fu detto delle Malvinas o Malvine. Gli Inglesi, sbarcati anch’essi nel 1764, dovettero sgombrare nel 1770 sotto la minaccia di una squadra spagnola, e questo episodio portò Spagna e Gran Bretagna sull’orlo di una guerra generalizzata. Fu in tale occasione che il celebre letterato Samuel Johnson, onde esortare il proprio governo alla moderazione, scrisse il pamphlet Riflessioni, etc (1771), sopra citato. Gli Inglesi rioccuparono Port Egmont nel 1771, per ragioni di prestigio, salvo abbandonarlo pochi anni dopo, nel 1774; gli Spagnoli conservarono Puerto Soledad fino alla perdita dell’Argentina, nel 1811. Solo nel 1833 i Britannici ritornarono, questa volta definitivamente, nonostante le proteste argentine, mai ritirate. E’ chiaro, quindi, che accordare la preferenza al nome Falkland o al nome Malvine ha un significato giuridico-politico e non geografico in senso stretto. Noi useremo il primo, unicamente perché accettato da quasi tutti i geografi (a eccezione, naturalmente, di quelli argentini). Cfr. enc. geogr. Il Milione, Novara, De Agostini, ediz. 1974, vol. XII, pp. 229-30; e CH. DE LA RONCIERE, La scoperta della Terra. Esploratori e conquistatori, Torino, ed. S.A.I.E., 1958, pp.265-266..

2.     “Non sapevamo nulla in proposito, sino a quando furono scoperte, nell’anno 1762, dalla nave Aurora, che le battezzò con tal nome”. Citato negli Atti della Reale Società Idrografica di Madrid, Madrid, 1809.

3.     E’ l’ultima fase della Guerra dei Sette Anni (1756-63), che vede, sui fronti coloniali e marittimi, l’intervento spagnolo a fianco della Francia di Luigi XV. “La distruzione della flotta francese e i colpi subiti sui teatri di guerra coloniali indussero allora il Duca di Choiseul, ministro di Luigi XV, a cercare la salvezza in una nuova serie di alleanze. Veniva stretto perciò (1761) il così detto Patto di Famiglia, per cui le quattro corti borboniche di Parigi, di Madrid, di Napoli e di Parma si stringevano in alleanza per la mutua difesa dei propri domini. Neppure questo bastò per arrestare i disastri francesi, mentre viceversa coinvolgeva nella sconfitta anche la flotta e le colonie della Spagna.” Così GIORGIO SPINI, Disegno storico della civiltà, Roma, ed. Cremonese, 1970, vol. II, pp. 365-366.

4.     Cfr: FRANCESCO LAMENDOLA, Terra Australis Incognita, ne Il Polo, Fermo, Ist. Geogr. Polare “S. Zavatti”, 1989, vol. 3, pp. 51-58.

5.     Vedere JEANNETTE  MIRSKY, In silenzio, su una cima del Darien, Balboa scopre il Pacifico, in I grandi esploratori, a cura di HELEN WRIGHT e SAMUEL RAPPORT, Roma, ed. Le Maschere,  s.d. (1957 ?), pp. 337-353; GIOTTO DAINELLI, La conquista della Terra. Storia delle esplorazioni, Torino, U.T.E.T., 1954, pp. 246-247; A.A. V.V., Great Adventures that Changed the World, The Reader’s Digest Association, 1978, pp. 90-97.

6.     Vedere GIORGIO MOSER, Alla scoperta di Magellano, Milano, F.lli Fabbri ed., 1974, spec. pp.129-144; ALBERTO MARIA DE AGOSTINI, Trent’anni nella Terra del Fuoco, Torino, Società Editrice Internazionale, 1955, p. 1 e pp. 310-312; G. DAINELLI, Op. cit., specialmente pp. 297-300.

7.     “Il grande sogno”: così definiscono il mito della Terra Australe Incognita gli studiosi LOUIS SPRAGUE DE CAMP-WILLY  LEY, Le Terre Leggendarie, Milano, Bompiani, 1962, pp. 145-171. Il solo L. DE CAMP è anche autore de Il Mito di Atlantide e i continenti scomparsi, Roma, Fanucci, 1980. Si può consultare utilmente, sull’argomento, anche GRAHAM HANCOCK, Impronte degli dèi, Milano, Corbaccio, 1996, spec. i capp. 1, 2 e 3.

8.     Cfr. ERIC NEWBY, a cura di, Il grande libro delle esplorazioni, Milano, Vallardi ed., 1976, pp. 88-89, 90-91.

9.      La questione se Drake si rendesse o meno conto della insularità della Terra del Fuoco è, peraltro, complessa e ancora aperta. Scrive SILVIO ZAVATTI, L’esplorazione dell’Antartide. Storia di un continente, Milano, Mursia, 1974, p. 17: “una violenta tempesta respinse la nave ammiraglia del corsaro in direzione di Mezzogiorno, fino a farle raggiungere il 57°, o magari soltanto il 56° di latitudine meridionale, cioè evidentemente sorpassando quella dell’ancora ignoto Capo Horn, estrema punta del continente americano. S’egli lo abbia veduto non risulta; ma riconobbe comunque che il Mondo Nuovo, a mezzogiorno dello Stretto di Magellano, continuava in un complesso non compatto di terre, ma di numerosissime isole divise da stretti canali.” Si confronti il brano ora citato con il seguente, tratto da O. H. K. SPATE, Storia del Pacifico. Il lago spagnolo, Torino, Einaudi, 1987, p. 350: “Il punto cruciale è che Drake, pur non avendo dimostrato la realtà del passaggio o stretto che oggi porta il suo nome, si era spinto abbastanza lontano da stabilire con virtuale certezza che i due oceani [l’Atlantico e il Pacifico, n.b ] in effetti si incontravano per ampio e libero tratto.”

10.  Esiste, presso l’Archivio dell’Istituto Geografico De Agostini, una incisione del 1616 che raffigura i supposti  indigeni dell’isola Horn, quando ancora non si sapeva che essa era deserta e inabitabile (contenuta in ANGELO SOLMI, Gli esploratori del Pacifico,Novara, I.G.D.A., 1985, intra pp. 80-81). Sono rappresentati nudi, di corporatura alta e slanciata, con lunghe acconciature e copricapi di piume d’uccello, come gli Arawak della regione caribica, e per di più in un paesaggio ammantato da una ricca vegetazione tropicale, con palme e leggere capanne di frasche. Niente a che vedere con i veri abitanti delle isole fueghine meridionali, gli Yaghan (o Yàmana),che erano di bassa statura e con le gambe rattrappite dalla costante permanenza nelle canoe da pesca , per cui eran detti canoeros, come i loro vicini occidentali, gli Alakaluf. Cfr. A. M. DE AGOSTINI, Ande Patagoniche, Milano, Soc. Cartografica Giovanni De Agostini, 1949, spec. pp. 59-63. L’isola di Capo Horn è stata visitata nel 1971 dal noto alpinista WALTER BONATTI, che ne ha fatto una descrizione, anche fotografica, per il settimanale Epoca, poi raccolta in volume con altre, In terre lontane, Milano, Baldini & Castoldi, 1997, pp. 239-248. Il vero paesaggio dell’isola è quanto mai inospitale: una distesa acquitrinosa di sfagni e torbe cedevoli con giunchi, erbe e faggi striscianti; solo nei pendii più riparati si addensa la foresta dei faggi australi (Nothofagus) le cui radure sono ingentilite da cuscinetti di bianche silene in fiore o bacche di un bel colore vermiglio. Non è mai stata abitata stabilmente, ma fino a qualche decennio fa vi si spingevano le canoe degli Yaghan, in estate (settembre-marzo), nelle loro battute di pesca. Uno sguardo d’insieme sui problemi relativi alla flora dell’estremo Sud è contenuto in FRANCESCO LAMENDOLA, Il limite antartico della vegetazione arborea, ne Il Polo, cit., 1986, vol. 3, pp. 29-35.

11.  La carta dell’emisfero Sud di Oronzio Fineo, del 1531, è dettagliatamente riprodotta in FRANCESCO LAMENDOLA, Mendana De Neira alla scoperta della Terra Australe, ne Il Polo, 1990, vol. 3, pp.19-24. Si nota chiaramente, in essa, che la Terra Australe ingloba la Terra del Fuoco mentre, sul versante dell’Oceano Indiano, raggiunge la latitudine del Madagascar, da cui la separa un braccio di mare  poco più ampio del Canale di Mozambico (fra il  Madagascar e la costa africana). Per quanto riguarda i problemi posti dalla carta, si veda COLIN & DAMON WILSON, Il grande libro dei misteri irrisolti, Roma, Newton & Compton, 2002, pp. 597-600. Essa fu uno degli elementi che indussero il professor CHARLES HAPGOOD a formulare la sua teoria di un’antichissima civiltà marinara, depositaria di una conoscenza geografica e scientifica andata in massima parte perduta nei tempi storici: Le mappe delle civiltà perdute, Roma, ed. Profondo Rosso, 2004.

12.  Il mappamondo di Abramo Ortelio è riportato in A. SOLMI, Op. cit., intra pp. 88-89. Rappresenta la Terra Australe inglobante (al solito) la Terra del Fuoco; più lontana (ma non lontanissima) dal Capo di Buona Speranza, di quella di Oronzio Fineo di trentatre anni prima; ed enormemente sviluppata in direzione della congiunzione fra l’Oceano Indiano e il Pacifico, tanto da includere quella che oggi è l’Australia.

13.   Si veda  F. LAMENDOLA, Mendana De Neira alla scoperta della Terra Australe, cit.

14.   Pare che Drake, navigando in balìa dei venti a  Sud della Terra del Fuoco, abbia scorto un’isola che denominò Elizabetha, in onore della regina d’Inghilterra (e  riportata nella carta di Hondius del 1590) che ha dato un bel po’ da pensare ai geografi, imbarazzatissimi nel tentar d’identificarla. Alcuni studiosi ipotizzano che Drake possa aver preso un abbaglio, scambiando per terra ferma un iceberg o, comunque, credendo di vedere quel che non c’era. A meno che si sia trattato del gruppo delle minuscole Isole Diego Ramirez, che si trovano, appunto, a Sud-Ovest di Capo Horn. Un altro possibile “candidato”, quantunque meno probabile (e questa è una nostra ipotesi) potrebbe essere il gruppo delle Isole Ildefonso, che si trovano sul parallelo dell’isola Hermite (e dunque appena un po’ a nord di Capo Horn, ma sempre al largo in direzione Ovest).

15.   RENE’ THEVENIN, I Paesi leggendari, Milano, Garzanti, 1960, p.111.

16.   Bouvet  De Lozier aveva al suo comando due navi, la Aigle (Aquila) e la Marie, che non volle mettere a repentaglio con un tentativo di sbarco fra ghiacci e nebbia. “De Lozier fu saggio; infatti quelle masse di ghiacci galleggianti avrebbero stritolato le chiglie di legno delle sue navi. La Aigle e la Marie non erano certo attrezzate per le rotte polari.” Questo è il giudizio di ROGER A. CARAS, L’Antartide,Milano, Garzanti, 1964, p. 15. Interessante l’intuizione, da parte del navigatore francese, che a Sud dell’isola da lui veduta (ma non riconosciuta come tale, visto che la chiamò semplicemente Capo della Circoncisione) doveva esservi un vero continente, ma ghiacciato. “Egli suppose correttamente che quei ghiacci [gli iceberg] potevano venire soltanto da una grande massa terrestre posta a sud della muraglia che gli sbarrava la strada”: così WALTER SULLIVAN, Alla ricerca di un continente, Firenze, Casini ed., s.d. (1958 ?), p. 26.

17.   Non possiamo non ricordare, qui, l’ottimo libro di SILVIO ZAVATTI, I viaggi del capitano James Cook, Milano, ed. Schwarz, 1960, notevole soprattutto per la chiarezza didattica ed espositiva e testimonianza della vastità d’interessi (non solo limitati alle questioni polari) del fondatore dell’Istituto Geografico Polare di Fermo.

18.  Sulle vicende relative a queste “isole fantasma” dell’estremo Pacifico australe, si veda F: LAMENDOLA, Terra Australis Incognita, cit.

19.  La Marina spagnola, negli ultimi decenni del XVIII secolo, fece un notevole sforzo organizzativo per colmare il divario tecnico e professionale che la separava dalle altre grandi Marine del tempo. Una pagina luminosa di questa volontà di rinnovamento è costituita dal viaggio quinquennale di esplorazione (1789-94) affidato a un brillante comandante italiano, il marchese Alessandro Malaspina e condotto dalle due corvette DescubiertaAtrevida. Ma, al ritorno in Spagna, per i soliti intrighi di corte fu imprigionato e liberato dopo ben sette anni, per intercessione di Napoleone. Una ricca bibliografia in proposito è contenuta in SERGIO ZAVATTI, Dizionario degli esploratori, Milano, Feltrinelli, 1967, p. 182. Tra le biografie di Malaspina in lingua italiana, segnaliamo ANGELO MARTELLI, Alessandro Malaspina, Parma, Gruppo Agricolo-Culturale “A. Bizzozero”, 1991.

20.  Atti della Reale Società Idrografica di Madrid, cit.

21.  La rivolta indiana sconvolse dalle fondamenta il dominio spagnolo sul Perù e sull’Alto Perù (l’odierna Bolivia) tra il 1780 e il 1782. Il suo capo carismatico, José Gabriel Condorcanqui, che si proclamava discendente diretto dell’ultimo sovrano Inca, Tupac Amaru, fu squartato sulla pubblica piazza di Cuzco, dopo aver dovuto assistere al supplizio della moglie, dei figli e degli amici e compagni di lotta. Cfr. FRANCESCO LAMENDOLA, Tupac Amaru II: la voce della rivolta, ne Il calendario del popolo, riv: mensile, Milano, Teti ed., Aprile 1993, pp. 15.994-16.000. Su questo drammatico episodio esiste una famosa poesia del notevole poeta peruviano ALEJANDRO ROMUALDO, Poesia Integra, Lima, ed. Viva Voz, pp. 115-16; la traduzione italiana è contenuta in MARCELO RAVONI-ANTONIO PORTA, Poeti ispano americani contemporanei, Milano, Feltrinelli, 1970, pp. 398-400. Cfr. anche FRANCESCO LAMENDOLA, Voci di libertà dei popoli oppressi, Casalvelino Scalo, ed: Galzerano, 1987, pp.18-19.

22.  Per  quasi tutta la durata del suo Impero coloniale, la Spagna era stata tormentata non solo dagli attacchi delle altre potenze marittime ai suoi possedimenti, ma anche dal fenomeno della pirateria, che imperversò specialmente nel Mar dei Caraibi: arteria vitale per la Marina iberica, i cui galeoni carichi dei metalli preziosi del Messico (e, per la via dell’istmo di Panama, anche del Perù) dovevano forzatamente transitare attraverso lo Stretto di Florida o il Canale dello Yucatàn. Cfr., tra le molte opere sull’argomento, MENDEL PETERSON, la flotta dell’oro, Milano, Rizzoli, 1979.

23.  Documento riportato in PETER KOLOSIMO, Non è terrestre, Milano, Sugar, 1968, pp. 261-62; e in PETER HAINING, Antichi misteri, Milano, Sperling & Kupfer, 1978, p. 125.

24.  Il caso, del resto, non è poi così eccezionale. Si pensi alle due isole maggiori della Nuova Zelanda, denominate semplicemente Isola del Nord e Isola del Sud; alle già citate due isole maggiori delle Falkland, Orientale e Occidentale; alle due maggiori dell’Arcipelago Juan Fernàndez, oggi chiamate Robinson Crusoe e Alejandro Selkirk, ma per secoli conosciute come Mas a Tierra (ossia “più vicina alla terraferma” [del Sud America], dunque più orientale), e Mas a Fuera (“più al largo”, e perciò più occidentale). Cfr. F: LAMENDOLA, La flora sub-antartica di Mas a Fuera, ne Il Polo, cit., 1989, vol. 1, pp. 34-39; e RODRIGO DE CASTRO, Le isole di Robinson, in Atlante, mensile dell’I.G.D.A. di Novara, , 1992, nr. 11, pp. 26-33.

25.  Pare che Bustamente vedesse qualche cosa d’altro, oltre alle Auroras, ma la sua relazione si fa su questo punto così confusa, che non è possibile capire esattamente di cosa si trattasse. Scrive P. KOLOSIMO,, Op. cit., p.262 “Nella relazione stesa dalla spedizione dell’Atrevida e dovuta con ogni probabilità al comandante, capitano J. De Bustamente, si legge d’altre isole avvistate in quei paraggi; ma né di queste ultime né delle Auroras venne più trovata traccia in seguito. Che si sia trattato d’un miraggio, come alcuni sostengono, è assurdo: i rapporti di cui disponiamo sono troppo coscienziosi e dettagliati, e quelli a cui abbiamo accennato non sono i soli viaggiatori che abbiano avvistato e costeggiato quei lembi di terra.”

26.  Nella Encyclopaedia Britannica, ed. 1961, non c’è una “voce” biografica dedicata a James Weddel, ma solo una citazione a proposito delle navigazioni antartiche, vol. II, p. 16d, di FRANK DEBENHAM-JOHN DOUGLAS MORRISON BLYTH, Antarctic Regions. Exploration and Discovery. Ancora più sbrigativa The American Peoples Encyclopedia, ediz. 1968, vol:I, p. 507, articolo di PAUL A. SIPLE, Antarctica, Exploration.

27.   “Weddell denominò questo mare dal Re Giorgio IV. Fu  rinominato Mare di Weddell nel 1900. Nessuna penetrazione ulteriore verso sud fu fatta in esso fino al viaggio di Shackleton del 1914-16. Così E. NEWBY, Op. cit.,p. 249b.

28.  Per dare un’idea di quale ritmo avesse preso lo sterminio indiscriminato della fauna antartica da parte di quei balenieri e cacciatori di foche, cui pure dobbiamo pagine importanti dell’esplorazione delle regioni antartiche, citiamo il seguente passo di UGO SCAIONI, La Rivoluzione industriale, Milano, Mondadori, 1976, pp. 94-95: “In circa 4 anni, dal 1810 al 1813, vennero uccisi circa duecentomila esemplari di una specie di otaria che popolava l’isola Macquarie e che, per sua sfortuna, era ricoperta da una magnifica pelliccia. La tecnica di caccia era poco raffinata, ma efficace data la mitezza dei mammiferi: si entrava in mezzo al branco e si colpivano gli animali con bastoni, fiocine, arpioni e scuri. Appena 7 anni più tardi, nel 1820, delle centinaia di migliaia di otarie che da secoli avevano dimorato sull’isola non esistevano che milioni di ossa sparse lungo le gelide spiagge. Il trattamento riservato alle quattro specie di pinguini delle isole Crozet e Kerguelen fu ancora più sbrigativo. Dopo essere state massacrate a colpi di bastone, le bestie, fornite di abbondanti riserve di grasso, venivano con raccapricciante cinismo spremute sotto rudimentali torchi per ricavarne olio, o addirittura usate tali e quali come combustibile per alimentare i fuochi degli accampamenti. Agli albatros di Nuova Amsterdam fu invece fatale la moda di applicare alle pipe un cannello ricavato da un loro osso. Lo sterminio delle foche e dei pinguini obbedì a ragioni economiche: quello degli albatros servì soltanto a riempire il tempo libero dei cacciatori.”

29.  JAMES WEDDELL, Voyage Towards the South Pole, Londra, 1825; trad: in P: HAINING,

     Op .cit., p. 216.

30.  P. HAINING, Supra. Cfr. anche A. SOLMI,, Op. cit., p. 216: “La sua straordinaria navigazione,conosciuta confusamente negli ambienti letterari, fu una delle fonti che diedero a Edgar Poe lo spunto per scrivere, nel 1837, il celebre Gordon Pym.” Un’altra fonte, interamente letteraria,fu La ballata del vecchio marinaio di S. T. Coleridge (cfr. ROBERT E. SPILLER, Literary History of the United States, New York, Macmillan, 1966, p. 329).

31.  Citazione da RUPERT T. GOULD, Oddities, Londra, 1928, e riportata in P. HAINING, Op. cit., pp. 126-127.

32.  Dal Nautical Magazine, 1893..

33.  Riportato in R.T.GOULD, Op. cit.; e inoltre da P: KOLOSIMO, Cit., pp. 262-63, e da P. HAINING, Cit., p. 127.

34.  La posizione dell’isola Saxemberg, secondo le coordinate fornite da Lindeman nel 1670, era la seguente: 30° 40’ Sud, e 19° 30’ Ovest; dunque a circa 1.300 km. a nord –ovest di Tristan da Cunha. Questo è coerente con la notizia che una lussureggiante vegetazione sub-tropicale ne rivestiva le pendici: il suo clima doveva essere una via di mezzo fra quello di Tristan e quello di Sant’Elena, anticamente ricoperta da fittissimi boschi (poi distrutti dall’intervento dell’uomo e, soprattutto, dall’introduzione della capra).

35.  La biografia di questo navigatore non è molto chiara. Pare che fosse di origine inglese (ma, si direbbe, con ascendenze francesi) e il suo nome era Anthony de La Roche, “spagnolizzato”, dopo che si fu stabilito a Cadice  per motivi di commercio,  in Antonio de La Roche. Rientrato in Gran Bretagna, allorché gli giunsero notizie più precise sulla rotta del Capo Horn, armò due navi e con esse si portò nel Pacifico. Sulla via del ritorno, appunto per la rotta del Capo Horn, le tempeste lo trascinarono in vista di quella che era, probabilmente, la Georgia Australe. Cfr. S. ZAVATTI, L’esplorazione dell’Antartide, cit., p. 20. Secondo R.A.CARAS, L’Antartide, cit., “esistono prove concrete che il mercante inglese Antonio de La Roche scoprì nel 1675 la Georgia Australe e vi riparò con due navi – di cui non ci è pervenuto il nome –mentre cercava di sfuggire a una furiosa tempesta” (p. 14). Per dovere di completezza ricordiamo che alcuni studiosi ipotizzano che il primo scopritore della Georgia Australe sia stato Amerigo Vespucci, nel 1502; mancano, però, prove certe al riguardo. Quanto all’Isola Grande, posta sul 45° parallelo Sud, de La Roche la descrisse come “notevolmente grande e piacevole, con un buon porto ad oriente” (cit. da ELLIOT O’DONNELL, Phantom Islands of the Atlantic, in Prediction, giugno 1946. Ma P. HAINING, Op. cit., p. 127, osserva in proposito: “Sfortunatamente gli Spagnoli non fornirono alcun punto di riferimento sufficientemente esatto a proposito di quest’isola e, benché fosse stata indicata sulle carte geografiche dell’epoca, si levò contro di essa una generale opposizione dopo che diverse spedizioni non erano riuscite a trovare nulla. Si ritiene adesso che l’Isola Grande non fosse altro che un promontorio del continente sudamericano.”

36.  La prima idea di stabilire una stazione scientifica e meteorologica permanente sull’Isola Bouvet fu di Silvio Zavatti, che la raggiunse nel 1959 con Giorgio Costanzo e vi scoprì una nuova baia (la Baia Tupini, in onore di un ministro italiano). Ma l’Italia, che non aveva aderito ancora al Trattato Antartico, non appoggiò l’iniziativa, che dovette arenarsi. Vedi S. ZAVATTI, Viaggio all’isola Bouvet, Bologna, Malipiero,1960. Come è noto, la prima base  permanente italiana in Antartide, nella Baia di Terra Nova, è entrata in funzione nell’estate 1987-88. Dal 1981 l’Italia ha chiesto di aderire al Trattato e ne è divenuta membro consultivo dal 5 ottobre 1987: Cfr. JOHN MAY, Antartide, Milano, Giorgio Mondadori, 1988, p. 120.  La pionieristica iniziativa di Zavatti è ricordata da GIANLUCA FRINCHILLUCCI, Silvio Zavatti e l’esplorazione dell’isola Bouvet, ne Il Polo, cit., 2002, vol.1-2, pp. 69-73.

37.  L’isola Thompson è al centro di un notevole romanzo dello scrittore sudafricano di lingua inglese GEOFFREY JENKINS, A Grue of Ice (tradotto in italiano con il titolo Mare, Vento, Ghiacci, Milano, Longanesi & C., 1971). Nella premessa, l’Autore avverte: “L’isola Thompson esiste. La sua posizione, tuttavia, nelle acque dell’Antartide sferzate dalle tempeste, a circa milleseicento miglia a sud della punta più meridionale del continente africano, costituisce uno dei grandi misteri del mare. L’isola fu scoperta dal capitano George Norris, comandante del battello britannico Sprightly adibito alla caccia alle foche, il 13 dicembre 1825. Sessant’anni dopo l’isola venne nuovamente avvistata da un capitano americano, Joseph J. Fuller. Dal tempo della sua scoperta a opera di Norris, parecchi famosi marinai e spedizioni equipaggiate di tutto punto sono andati  alla ricerca di quell’isola, che però, se si eccettua l’avvistamento fortunoso del capitano Fuller, non venne più in seguito localizzata. Il capitano Norris, non soltanto disegnò una carta dell’isola Thompson, ma ne tratteggiò degli schizzi da una decina di diverse angolazioni. Ho avuto modo di esaminare quella mappa e quegli schizzi e anche di leggere il testo della relazione verbale fatta da Fuller ai suoi tempi all’American Frankin Institute.”

38.  Per quanto riguarda la neve, osserviamo che la relazione di Bustamante (1794) descrive le Auroras come “in parte coperte di neve”; mentre in quella di Hatfield (1892) si dice testualmente: “le colline non avevano traccia di neve”; mentre nel giornale di bordo della  Helen Baird (1856) è scritto che il capitano in seconda “vide le Auroras coperte di neve”. Ora, la discordanza tra questi osservatori si può facilmente spiegare con le differenze climatiche stagionali: gli uni videro le Auroras in inverno (da marzo a settembre, nell’emisfero Sud), e quindi innevate; gli altri in estate (settembre-marzo), sgombre di neve. Né deve stupire la totale assenza di manto nevoso, sia pure nel colmo dei mesi estivi. Le Auroras dovevano trovarsi alla latitudine delle Falkland e avere, pertanto, un clima simile: fresco e piovoso d’estate, ma senza neve; e simile doveva apparire anche l’orografia, poiché si parla sempre e solo di colline, mai di vere montagne.

39.  Certo, in linea di massima non è sempre agevole distinguere un grande iceberg tabulare (che può avere dimensioni enormi: nel 1947, a sud dell’Australia, ne fu avvistato uno che aveva una superficie stimata di circa 25.000 kmq., ossia pari a quella della Sicilia!) da una terra emersa. Valgano per tutti il caso della “Terra Sabrina”, vista da Biscoe nel 1839; e quello, ancor più discusso, della “ Terra di Bradley” (nell’Artico, a 84° 50’ Nord), scorta da Frederick A. Cook, colui che contende a Robert Peary la conquista del Polo Nord, nel 1908.

40.   L’isola Dougherty, scoperta dal baleniere americano Swain nel 1800, a circa 60° di latitudine Sud e 120° di longitudine Ovest, fu rivista saltuariamente da alcune navi, e in particolare dal capitano britannico Dougherty, nel 1841, che le diede il proprio nome. Riconosciuta ancora nel 1859 e nel 1866,  scomparve poi definitivamente. Scrive R. THEVENIN, Op. cit., p. 86: “Infatti una nave incrociò e bordeggiò  su una superficie di 250 chilometri intorno al punto indicato, ma invano. Nel 1904, Scott fa dei sondaggi nello stesso luogo e vi trova una profondità di più di 4.000 metri!”. Cfr. F. LAMENDOLA, Terra Australis Incognita, cit., p. 56.

41.  Il grande psicologo svizzero espose tali concetti in un’opera espressamente dedicata al fenomeno dei cosiddetti dischi volanti: Di cose che si vedono nel cielo. Vale la pena di riportare alcune righe del saggio di BARBARA HANNAH, Vita e opere di C. G. Jung, Milano, Rusconi, 1996, pp. 468-469: “In effetti, Jung era assai meno interessato al problema della loro eventuale esistenza fisica,  che non al fatto innegabile che molte persone, da un capo all’altro del mondo, scorgevano in cielo oggetti di forma tondeggiante… Lo scetticismo di Jung circa la possibile realtà fisica dei dischi volanti andò attenuandosi a mano a mano che venivano rese note  altre testimonianze degne di fede; ma, scrive nell’introduzione, come psicologo non sono qualificato a dare un contributo utile al problema della realtà fisica  degli UFO, e non posso che limitarmi al loro indubbio aspetto psichico.”

42.  Cfr. GIUSEPPE NANGERONI, Geografia e Geologia, Milano-Varese, Istituto. Editoriale Cisalpino, 1968, p. 246.

43.  Cfr. ROBERTO ALMAGIA’, Fondamenti di Geografia generale, Roma, ed.:Cremonese, 1961, vol. I, p. 222

44.  –Cfr: HAROUN TAZIEFF, E l’Inferno venne a galla, su Atlante, cit., 1970, nr. 10, pp. 26-33.

45.  Cfr. PLATONE, Timeo, 23b e 23e: “Dunque queste vostre genealogie che hai ora esposto, Solone, sono poco diverse dalle favole dei bambini, perché in primo luogo voi ricordate un solo diluvio della terra, mentre in precedenza ve ne sono stati molti, e in secondo luogo non sapete che nella vostra regione, presso di voi, ha avuto origine la stirpe più onorevole e più nobile di uomini…vissuti novemila anni fa” (tra. di E.  PEGONE, in Platone. Tutte le opere, Roma, Newton, 1997, vol. IV, pp.546-547.

 

 Francesco   Lamendola


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