IL
MISTERO DELLE ISOLE AURORAS (di F.
Lamendola) |
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IL
MISTERO DELLE ISOLE AURORAS
(Articolo pubblicato sul numero 3, del 2004 , anno LIX,
de “Il Polo”, rivista dell’Istituto Geografico Polare fondata da
Silvio Zavatti).
LA SCOPERTA.
Una giornata imprecisata del
1762 il veliero spagnolo Aurora , erede dei gloriosi galeoni
che nei secoli sedicesimo e diciassettesimo solcavano i mari,
assicurando i collegamenti fra la Penisola Iberica e il suo Impero
coloniale "sul quale il Sole non tramonta mai”, si sta inoltrando
sempre più nelle inquietanti solitudini dell’Atlantico meridionale.
Trascinato dalla furia della tempesta, naviga completamente fuori
rotta, qualcosa come 2.000 chilometri a est delle Falkland (1), in un
tratto di mare pressoché inesplorato. Gl’implacabili venti di ponente,
che a quelle latitudini non hanno mai sosta, hanno afferrato le pur
ridotte velature, lacerandole, e hanno sospinto la nave oltre i
“quaranta ruggenti”, sin nel cuore dei “cinquanta urlanti”: una
cintura di acque perennemente burrascose, con onde alte fino a 10
metri e anche più, e con raffiche di pioggia gelata mista a nevischio
e ghiaccio che corre lungo il 50° parallelo Sud. Mentre gli alberi
scricchiolano sotto l’assalto del vento e lo scafo rolla e beccheggia
fra i cavalloni come un guscio di noce, il sartiame a brandelli, il
timoniere e le vedette si sforzano di penetrare con gli sguardi entro
i banchi insidiosi di nebbia che celano il mortale pericolo degli
iceberg, gli enormi blocchi di ghiaccio galleggianti, che le
correnti hanno strappato dalla ciclopica fronte della banchisa
antartica. Ma ecco che d’improvviso, come suole accadere in quei mari
strani e remoti, uno squarcio inatteso fra le nubi annuncia una
effimera tregua degli elementi: la violenza del vento si attenua, le
onde smorzano la loro furia e un vasto lembo di cielo azzurro si
apre come un sipario, profondo e terso come nessun pittore saprebbe
raffigurarlo sulla tela, rivelando un’ampiezza di orizzonte
incomparabile. Il comandante e l’equipaggio, stremati dalla fatica,
dal freddo e dallo scorbuto, guardano sbalorditi quel prodigio di
luce, mentre la Natura stessa sembra trattenere il fiato, come in
attesa di un’arcana rivelazione. Perché laggiù, dove cielo e mare
sembrano confondersi in un abbraccio indistinto, è apparsa – visione
emozionante quant’altre mai – una terra, una terra sconosciuta e che
nessuno si aspettava di avvistare.
Superato lo stupore
iniziale, gli uomini hanno modo di notare che non si tratta di
un’unica terra, ma di un gruppo di isole, che il capitano decide di
battezzare prontamente col nome della propria nave: las Auroras.
Nessun atlante nautico, infatti, le riporta; nessun navigatore le
aveva mai segnalate (2). Non vi è tempo, del resto, di rilevarne
adeguatamente la posizione, né tanto meno di accostare per tentare uno
sbarco. Il mare incollerito, geloso dei suoi segreti, si sta mettendo
nuovamente al brutto: troppo rischioso avvicinarsi a riva per cercare
un ancoraggio, non parliamo poi di calare una scialuppa. E come se non
bastasse l’inclemenza degli elementi, vi è sempre il pericolo di fare
qualche brutto incontro: la Spagna di Carlo III di Borbone (1759-88),
despota illuminato, è in stato di guerra con la Gran Bretagna del re
Giorgio III di Hannover (1760-1815), il cui ministro William Pitt il
Vecchio, pur costretto alle dimissioni, ha acceso nei suoi compatrioti
una intransigente volontà di supremazia marittima e coloniale sul
blocco franco-spagnolo. (3) Sarebbe oltremodo spiacevole rischiare un
duello con qualche corvetta di Sua Maestà britannica e sfidare il
destino in un confronto coi cannoni inglesi, dopo essere sfuggiti con
tanta pena alla morsa dei procellosi mari antartici. Nessuno, quindi,
a bordo dell’Aurora, desidera minimamente trattenersi in quelle
acque un minuto in più dello stretto necessario: e volta la prua in
direzione di latitudini meno inclementi, ben presto le misteriose
isole scompaiono alla vista come un miraggio, inghiottite
dall’orizzonte marino.
IL CONTESTO STORICO.-
Non era quello il primo
avvistamento di terre sconosciute nelle vastità oceaniche
dell’emisfero Sud, anzi era l’ultimo anello di una lunga catena di
scoperte (e talvolta di successive scomparse) che avevano
caratterizzato la ricerca affannosa e instancabile del misterioso
continente australe che, si diceva, doveva esistere per fare da
contrappeso alla massa dei continenti boreali: Terra Australis
Incognita, o meglio, come riportavano ottimisticamente i
cartografi del tempo: Terra Australis Necdum Cognita, ossia
Terra Australe non ancora conosciuta, ma destinata ad esserlo,
presto o tardi. (4) Tutto era cominciato nel 1520, quando Ferdinando
Magellano, attraversando lo Stretto che porta tuttora il suo nome alla
ricerca del Mare del Sud, ossia l’Oceano Pacifico ( intravisto la
prima volta da Vasco Nuñez de Balboa nel 1513, dall’alto di una
collina del Darién) (5), aveva osservato sulla sua sinistra, durante
quei trentotto giorni di navigazione tra monti innevati che spingevano
sino al mare le fronti dei loro ghiacciai, una terra misteriosa, ove
la notte brillavano i fuochi degli accampamenti indigeni, e l’aveva
chiamata Tierra de los Fuegos, Terra dei Fuochi (più tardi, del
Fuoco).(6) Era quella, senza dubbio, la propaggine settentrionale del
mitico continente australe, la cui esistenza era stata ipotizzata da
scienziati, filosofi e cartografi dall’epoca del grande astronomo e
geografo Tolomeo (II sec. d. C.) in avanti. (7). Poi, nel 1577, in
pieno inverno australe (cioè nell’agosto), il corsaro inglese Francis
Drake aveva ripetuto l’impresa con una flotta di cinque navi, che
però, all’uscita dello Stretto di Magellano, era stata dispersa dalle
furiose tempeste; l’ammiraglia era stata respinta verso sud, nello
Stretto che oggi porta il suo nome, e ciò era valso, sia pure
involontariamente, a dimostrare la natura insulare della Terra del
Fuoco. (8) Se tuttavia quest’ultima non poteva più, evidentemente,
esser considerata come facente parte della Terra Australe, in compenso
Drake aveva potuto scorgere, nell’infuriare della tempesta, un’altra
terra ancor più meridionale, che ben poteva, e in un certo senso
doveva, esserne l’estremità settentrionale. (9) Che poi un continente
posto a mezzogiorno del Capo Horn, cioè del 55° parallelo Sud, sarebbe
stato – per motivi climatici – ben poco ospitale ed attraente, poco
importava; la fantasia suppliva alle carenze della logica, visto che
ancora nel XVII secolo gli artisti europei raffiguravano appunto
l’Isola di Horn, la più australe della Terra del Fuoco, come coperta
da una ricca vegetazione e abitata da indigeni dall’aspetto abbastanza
evoluto, mentre un semplice ragionamento avrebbe dovuto suggerire
ch’essa doveva essere, come in realtà è, totalmente brulla e
disabitata. (10) Non aveva forse rappresentato il celebre geografo
francese Oronteus Finaeus, nel suo mappamondo del 1531, la Terra
Australis come un’enorme massa continentale, attraversata da
catene di montagne e percorsa da grandi fiumi, che nel Pacifico e
nell’Oceano Indiano raggiungeva le latitudini temperate, e sfiorava,
addirittura, quelle con clima sub-tropicale? (11) Non aveva fatto la
stessa cosa il cartografo fiammingo Abramo Ortelio nel suo mappamondo
del 1564, in cui il continente meridionale giungeva quasi a lambire
l’Equatore, non lungi dalle Isole della Sonda? (12) E non era forse
partito, il navigatore spagnolo Alvaro Mendana de Neira, per ben due
volte, nel 1567 e nel 1595, dal Perù alla volta della favolosa Terra
Australe e delle sue inesauribili ricchezze, lasciando infine la vita
in una delle Isole Santa Cruz, ch’egli credette appunto essere una
parte di quel continente.? (13) Oggi si pensa che quel che vide, o
intravvide, il Drake, peraltro con pessime condizioni di visibilità,
probabilmente non erano altro che le Isole Diego Ramìrez, un minuscolo
arcipelago sperduto poco a sud di Capo Horn (14); ma allora ogni
notizia di avvistamento di terre, sia pure incerta e confusa, in quei
mari meridionali, veniva interpretata come un altro tassello del
mosaico formante la Terra Australis Incognita. Un filosofo,
infatti, direbbe che gli uomini non credono in ciò che vedono, ma in
ciò che vogliono vedere, in ciò che meglio serve a mantenere in
vita i loro desideri più segreti, siano pur essi delle chimere. E come
biasimarli? Scrive René Thévenin: “I paesi leggendari… Li abbiamo
scorti all’inizio della civiltà. Li ritroviamo all’apogeo della
nostra. Come possiamo credere che non dureranno tanto quanto l’uomo,
poiché è in noi stessi che vivono?” (15)
Così, ad esempio, quando il
navigatore francese Bouvet de Lozier, al servizio della Compagnia
delle Indie, nel 1738 scoprì, molto a sud del Capo di Buona Speranza,
una terra ghiacciata e desolata cui dette il suo nome e che poi fu,
per quasi due secoli, più volte perduta e ritrovata, simile in questo
a un fantasma del mare), si affrettò a riferirne in patria in termini
entusiastici e, benché non vi fosse nemmeno sbarcato, si disse certo
delle sue potenzialità economiche. Ne seguì una penosa vicenda di
polemiche ed accuse, da cui la sua credibilità era uscita gravemente
compromessa: e tuttavia un altro tassello della Terra Australis
era stato scoperto ed aggiunto ai precedenti – almeno per quanti non
volevano arrendersi a veder svanire una leggenda così suggestiva. (16)
Ma ormai l’epoca dei Lumi batteva alle porte: l’arte della
navigazione era divenuta una scienza esigente e sempre più rigorosa:
James Cook, coi suoi tre memorabili viaggi alle latitudini australi,
s’incaricò di sfatarla una volta per sempre, fra il 1768 e il 1769,
l’anno della sua tragica morte alle Isole Hawaii.(17)
Un mito, peraltro, non può
svanire di colpo: poiché affonda le sue radici, come un albero
millenario, nelle profondità dell’inconscio collettivo, esso tramonta
poco a poco, mandando qualche ultimo bagliore prima di eclissarsi. Fu
così che, fra la seconda metà del XVIII secolo e la prima metà del XI,
continuarono a moltiplicarsi gli avvistamenti di terre, di isole e
arcipelaghi misteriosi, quasi estremi lembi smarriti del grandioso,
perduto continente. Tale fu il caso delle isole Emerald, Nimrod e
Dougherty nell’Oceano Pacifico (18); tale fu, appunto, il caso delle
Isole Auroras.
LA CONFERMA.-
L’avvistamento delle Auroras,
segnalato alla Società Idrografica di Madrid, non ebbe più seguito per
una trentina d’anni. Ma nel 1790 il destino volle che un’altra nave
battente bandiera di Sua Maestà Cattolica (questa volta, si trattava
di Carlo IV di Borbone) si trovasse ad incrociare in quelle acque
remote, e avvistasse a sua volta le isole. Si trattava della
Princess, appartenente alla Reale Compagnia delle Filippine, ed
era al comando di Manuel de Oyarvido, un uomo di mare più scrupoloso,
o forse più fortunato, del suo predecessore. Infatti, sebbene neanche
lui si sentisse in grado di accostare per tentare uno sbarco,
condizione allora necessaria (anche se non di per sè sufficiente) per
una rivendicazione ufficiale di sovranità presso le cancellerie
internazionali, prima di abbandonare quelle acque si preoccupò di
rilevare accuratamente la posizione delle Auroras, trascrivendo poi le
sue osservazioni sul giornale di bordo. Rientrato al Callao, sulla
costa peruviana, de Oyarvido si recò a Lima e sottopose il proprio
giornale di bordo alle autorità competenti della locale sezione della
Società Idrografica di Madrid, mostrando che la Marina spagnola stava
uscendo (proprio al suo tramonto!) da un certo qual clima di
approssimazione, per mettersi al pari con lo spirito scientifico delle
altre grandi marine europee, l’inglese e la francese (che produssero
infatti, in quegli anni, due giganti della statura di Cook e di
Bougainville). (19) Il materiale fornito dal capitano della
Princess venne incluso in una scrupolosa relazione che reca la
data del 1809 e che fornì la base per una ricognizione dell’arcipelago
varata appositamente, quattro anni dopo, col preciso scopo di
cartografarlo e verificarne le condizioni di approdo e di eventuale
abitabilità e sfruttamento economico. (20) Bisogna anche dire che la
Spagna, all’epoca, conscia della sua debolezza quale potenza navale e
della precarietà del suo stesso Impero coloniale (il cui fulcro, il
Vicereame del Perù, era stato squassato dalla pericolosissima rivolta
indiana guidata da Tupac Amaru, solo pochi anni prima) (21), era
sempre assai cauta, per non dire riluttante, a divulgare le proprie
scoperte marittime e si mostrava quanto mai gelosa di ogni
informazione geografica che, venuta in mano delle potenze sue rivali,
effettive o potenziali, avrebbe potuto esser da quelle utilizzata in
danno delle sue prerogative e delle sue aspirazioni, che erano assai
più ambiziose delle sue reali possibilità politico-militari. (22)
Giungiamo così al 1794: in
Europa infuria la Rivoluzione francese, anche se il governo giacobino
si avvia, col colpo di Stato del Termidoro, alla sua drammatica
caduta, per esser sostituito dal Direttorio d’ispirazione borghese e
moderata (almeno in politica economica e sociale). La corvetta
Atrevida, sempre della Compagnia Reale delle Filippine, salpa
espressamente alla volta delle Auroras, al comando del capitano J. De
Bustamente. Questi mostra di essere un uomo abile e competente,
all’altezza del compito affidatogli: certo, possiede il vantaggio
inestimabile – rispetto ai suoi predecessori - di non esser capitato
in quei paraggi per un semplice caso. Ecco quanto scrive egli stesso
nella propria relazione, dopo essere giunto, con l’Atrevida, in
vista delle isole, che si trovavano proprio là ove de Oyarvido le
aveva indicate: “Eseguimmo tutti i rilevamenti necessari e misurammo
con i cronometri la differenza di longitudine tra queste isole e il
porto di Soledad nelle Malvine. Le isole sono tre: si trovano molto
vicine e sullo stesso meridiano; il centro di una di esse è piuttosto
basso e le altre due possono scorgersi a nove leghe di distanza.” (23)
Riportiamo qui di seguito
le coordinate geografiche fornite da Bustamente:
-
Isola settentrionale: 52°
37’ 24” latitudine Sud; e 47° 43’ 15” longitudine Ovest;
-
Isola centrale:
53° 02’ 40” latitudine Sud; e 47° 55’ 15” longitudine Ovest;
-
Isola meridionale: 53°
15’ 22” latitudine Sud; e 47° 57’ 15” longitudine Ovest.
Nessun cenno di entusiasmo
trapela dalle parole con cui il comandante spagnolo si esprime nella
sua relazione, peraltro accurata e scrupolosa. Se egli si preoccupa di
dare un nome proprio alle “sue” isole (o almeno a due di esse), non si
può dire che si sia lambiccato molto il cervello per sforzare la
propria fantasia: chiama “Isola Nuova” quella più settentrionale,
“Isola Bassa” quella centrale e rinuncia a trovare una denominazione
per la terza, che rimane, banalmente, una semplice “Isola
Meridionale”.(24) Egli descrive le Auroras (a dispetto del loro nome
poetico e un po’ sognante) come interamente fredde e scure,
parzialmente ricoperte di neve e per giunta esposte ai gelidi venti
occidentali. (25) Non è certo difficile, leggendo la relazione del
buon Bustamente, né particolarmente malizioso ricavarne l’impressione
che lui, il suo pilota e i suoi ufficiali non avessero alcun desiderio
di prolungare la sosta in quelle acque più dello strettissimo
necessario, tanto è vero che nemmeno questa volta fu presa in
considerazione l’opportunità di uno sbarco. Eppure le condizioni del
mare, si direbbe, non dovevano essere poi così cattive, dal momento
che era stato possibile effettuare i rilevamenti cronometrici con
tanta precisione, quasi con pignoleria. Pertanto l’unica spiegazione a
tanta trascuratezza è che uno sbarco appariva del tutto inutile, vista
l’assoluta sterilità dell’arcipelago. Non era necessario l’atto
formale di piantare la bandiera di Spagna, perché quelle isole
sperdute nel gelo e nella nebbia non avrebbero mai potuto costituire
una risorsa, bensì soltanto l’ennesimo pericolo per la navigazione, da
aggiungere a quelli delle tempeste della nebbia e dei ghiacci
galleggianti. No, non valeva la pena di sbarcare, con l’Atrevida
– probabilmente - già messa a dura prova dai “cinquanta urlanti” e dai
molti mesi di navigazione in mare aperto, senza mai entrare in porto o
vedere una costa amica; con le velature incrostate di ghiaccio e con
l’equipaggio esausto e demoralizzato. Ma occorreva riportare le isole
con la massima cura possibile sulle carte nautiche, per evitare che
qualche nave, in futuro, potesse rischiarvi il naufragio, complice la
foschia o l’oscurità delle lunghe notti sub-antartiche. Ciò che fu
fatto con tempestività e competenza.
PRIME SMENTITE.
Di fatto, però, le Auroras
stavano per giocare una imprevedibile sorpresa ai naviganti
dell’Atlantico meridionale: quella di diventare sempre più elusive e,
alla fine, di scomparire per sempre. Dopo il viaggio di rilevamento
della corvetta Atrevida, l’arcipelago fu visto ancora soltanto
due volte, a metà e verso la fine del XIX secolo: poi, più nulla.
Il primo a rimanere beffato
dalle Auroras fu, nel 1822-23, l’illustre navigatore polare James
Weddell, inglese, che ha legato il proprio nome al rilievo delle
Orcadi Australi e soprattutto alla gloria di essere per primo
penetrato nell’ampia ingolfatura che porta ancor oggi il suo nome, il
Mare di Weddell, spingendosi fino alla latitudine record di 74°
e 15’ Sud. Egli desiderava ritrovare le Auroras e migliorarne
ulteriormente la conoscenza: era intrigato dalla scoperta dei marinai
spagnoli e al tempo stesso nutriva delle perplessità su quanto da loro
riferito. Weddell era uno dei più provati marinai di quei mari ostili,
che contribuì non poco a svelare: la sua patria, disconoscente, non
gli ha dedicato neppure un articolo della Encyclopaedia Britannica.
(26) Ex ufficiale della marina da guerra, aveva la stoffa dello
studioso (da lui prese il nome un particolare tipo di foca);
trentaquattrenne, era passato al servizio di una ditta di Edimburgo
che commerciava in grasso e olio di foca. Le navi dedite a quel tipo
di caccia (ma sarebbe più esatto adoperare la parola
sterminio) erano, quindi, progettate e costruite espressamente per
la navigazione ai limiti del pack antartico, con scafi
rinforzati e particolarmente robusti. Sfruttando la circostanza di un
inverno australe eccezionalmente mite, il 18 febbraio col brigantino
Jane e con il cutter Beaufoy si spinse più a Sud di
chiunque altro prima di lui e battezzò quel vasto specchio d’acqua
“Mare di Re Giorgio IV”: sarà poi l’ammirazione dei posteri a
rendergli quanto sfuggito alla sua modestia, ribattezzandolo col suo
nome, nel 1900. (27)
Il desiderio di James
Weddell di andare a fondo nella faccenda delle Isole Auroras andò,
comunque, frustrato: per quanto incrociasse scrupolosamente nella
posizione indicata dall’Atrevida, nulla gli apparve se non
cielo e mare. Nessun indizio di terra, neanche bordeggiando
pazientemente in lungo e in largo. Tuttavia volle esser certo di non
trascurare alcuna possibilità e decise di tener conto di un largo
margine di errore da parte di Bustamente: non era laggiù in veste di
scienziato ma di cacciatore di foche e, poiché le coste delle Isole
Sandwich Australi erano già state quasi spopolate dai suoi spietati
colleghi, desiderava con tutta l’anima trovare un lembo di terra che
non fosse già stato battuto e ove i pinnipedi fossero, perciò, ancora
numerosi. (28) Ma non ci fu nulla da fare: pareva che quelle isole, se
pure erano reali, si fossero inabissate, portando seco il loro
mistero. Ecco quanto scrisse malinconicamente nel suo diario di bordo,
mentre volgeva definitivamente la prora del suo brigantino Jane,
di 160 tonnellate, a Occidente, verso Port Stanley: “Dopo aver
esplorato con diligenza tutta la zona in cui si supponeva dovessero
trovarsi le Auroras, conclusi che gli scopritori dovevano essere stati
tratti in inganno dalle apparenze; ho ritenuto perciò ogni ulteriore
ricerca in questo tratto di mare un imprevidente spreco di tempo; e
con soddisfazione dei miei ufficiali e marinai, ho fatto rotta verso
le Isole Falkland.” (29)
E tuttavia, forse il
capitano inglese era stato mosso da altre ragioni, meno “ufficiali” e
anche meno confessabili, per ostinarsi così tanto nella vana ricerca
delle Auroras. Il loro nome, difatti, da alcuni anni era associato a
quello di un tesoro scomparso; e questa diceria, o leggenda che fosse,
ebbe un curioso influsso nella genesi di un capolavoro della
letteratura in lingua inglese. Osserva in proposito lo scrittore Peter
Haining: “Quanto ai marinai [del brigantino Jane ], esisteva
forse una inconscia ragione per desiderare che le Auroras esistessero
realmente a causa della leggenda secondo la quale un galeone spagnolo,
il San Telmo, era naufragato sulle loro coste nel 1819, con un
carico enorme d’oro e di argento. E’ stata questa leggenda, più che il
mistero delle Auroras, a ispirare Edgar Allan Poe quando scrisse il
suo unico romanzo completo, Le avventure di Arthur Gordon Pym da
Nantucket, nel 1838.” (30)
LA CONTROVERSIA.
Abbiamo detto che le
Isole Auroras si lasciarono vedere ancora due volte, prima di uscire
per sempre dalla storia delle navigazioni oceaniche; o, per meglio
dire, due sono le ulteriori segnalazioni certe, che vennero
avanzate con una certa dovizia di particolari e, si direbbe, in
perfetta buona fede.
La prima viene
effettuata, nel dicembre 1856, dalla nave Helen Baird. Sul
libro di bordo qualcuno, probabilmente il comandante, ha vergato
questa annotazione: “Alle quattro antimeridiane il capitano in seconda
fu avvertito della presenza di icebergs dal lato
sottovento; recatosi sul ponte, dichiarò che si trattava delle Auroras
coperte di neve.” (31) Parole un po’ enigmatiche, che lasciano in
dubbio su quel che effettivamente vide l’ufficiale in seconda; si
deduce che le condizioni di visibilità non dovevano essere delle
migliori. E dov’era il comandante? Quanto agli uomini dell’equipaggio,
la loro impressione fu che si trattasse di cinque, e non tre, piccole
isole: Risulta infatti che su alcune carte spagnole dell’epoca le
Auroras sono riportate come un arcipelago formato da cinque isole. Ma
l’interesse della Spagna per quei mari australi andava rapidamente
scemando, dopo la perdita irreparabile del suo Impero coloniale nelle
Americhe; e così le sue conoscenze di prima mano relative alla
navigazione sulle rotte atlantiche.
La cartografia internazionale,
comunque, cominciava a trovarsi in serio imbarazzo: il “comportamento”
di quelle remote isolette tendeva a farsi sempre più strano. Alcuni
atlanti le avevano accettate senz’altro nella categoria delle realtà
certe. La Rivista Nautica britannica, ad esempio, agli inizi
del XIX secolo aveva affermato che “il fatto che esistessero era tanto
poco messo in dubbio quanto si poteva dubitare della stessa
Australia.” (32). Non tutti, però, condividevano questa sicurezza. Il
mancato avvistamento da parte di James Weddell, nonostante le lunghe
ricerche e la sua fama di esperto lupo di mare, aveva inferto un colpo
durissimo alla credibilità della loro esistenza. Inoltre c’era la
circostanza che dal 1794 al 1856, quindi in un arco di tempo di ben
sessant’anni, di fatto mancavano altri avvistamenti certi e
documentati.
Passano altri trentasei anni: siamo
arrivati così al 1892. Questa volta è la nave Gladys del
capitano B. H. Hatfield che, navigando in quei paraggi, le avvista e
ne riconosce la posizione con un notevole grado di accuratezza. Scrive
infatti sul giornale di bordo: “26 giugno. Latitudine 52° 55’ Sud,
longitudine 49° 10’ Ovest, viene avvistata terra dalla parte
sottovento; si direbbe un’isola dalla forma allungata con due alture
che si elevano sulla sua sommità, dividendo l’isola in tre parti in
modo da farla sembrare come se fossero tre terre distinte Le colline
non avevano traccia di neve. Alle otto antimeridiane scopriamo
un’altra isola lontana circa dieci miglia… Sembra esistere la
possibilità di un passaggio tra quest’ultima isola e l’altra più
lunga.” (33) C’è da rimanere sconcertati: dapprima le osservazioni del
capitano Hatfield sembrano confermare i precedenti avvistamenti,
chiarendo però che le Auroras non sono tre, ma si tratta di un’unica
terra dal profilo dentellato; subito dopo, però, compare questa
seconda isola che confonde tutto il quadro e getta un ulteriore
elemento di perplessità, essendo del tutto in contrasto con quanto
riferito da Bustamente. E poi, se distava dall’isola principale ben 10
miglia, perché mai avrebbero dovuto esservi difficoltà ad attraversare
lo stretto fra le due? Quanto alle coordinate geografiche, rispetto a
quelle fornite dal comandante dell’Atrevida si direbbe che, più
o meno, ci siamo: vi è un errore di pochi primi di grado per la
latitudine, e di circa due gradi di meridiano per la longitudine: un
errore trascurabile e spiegabilissimo, data la strumentazione
dell’epoca e le presumibili condizioni del mare, mai tranquillo verso
i “cinquanta urlanti”.
A questo punto finisce la storia
delle Isole Auroras e comincia la leggenda: una di quelle che i
marinai di un tempo si raccontavano nelle fumose taverne dei porti,
nelle lunghe sere d’inverno, con un misto difficilmente separabile di
credulità e scetticismo. Da quell’ultimo decennio dell’Ottocento,
infatti, più nulla: il sipario scende sul misterioso arcipelago. Poco
alla volta, ma inesorabilmente, le Isole Auroras scompaiono dalle
pagine degli atlanti geografici e delle carte di navigazione
dell’Oceano Atlantico meridionale.
IPOTESI E CONCLUSIONI.-
Il caso delle Auroras, per quanto
affascinante, rientra in una ricca casistica di “isole fantasma”, che
sono apparse e scomparse, di quando in quando, su tutti i mari del
globo, specialmente in quelli artici ed antartici. Solo per limitarci
all’Atlantico meridionale, conosciamo il caso di almeno altre tre
“isole fantasma”: Saxemberg, L’Isola Grande e, infine, Bouvet: Le
prime due si sono eclissate, come le Auroras; la terza, dopo
un’alterna vicenda di smarrimenti e ritrovamenti, è “rimasta”
definitivamente. Vediamoli.
L’isola Saxemberg fu scoperta nel
1670 da un navigatore olandese, Lindeman, circa 600 miglia a
nord-ovest di Tristan da Cunha; non più rivista per oltre centotrenta
anni, fu di nuovo segnalata da due velieri statunitensi ai primi del
XIX secolo: il Fanny nel 1804 e il Columbus nel 1809;
poi, ancora, dalla nave inglese True Briton il cui comandante,
Head, ne confermò sia la posizione che le caratteristiche topografiche
(un’alta montagna posta al centro di essa); dopo di che scomparve per
sempre. (34) La cosiddetta Isola Grande venne scoperta nel 1675, circa
1500 chilometri a sud-est dalla foce del Rìo de la Plata (e quindi
quasi a metà strada fra questa e le Auroras), da Antonio de La Roche,
colui che è ricordato come lo scopritore della Georgia Australe; ma
anche di questa terra non si è mai più saputo nulla. (35) Quanto a
Bouvet, la storia dei suoi avvistamenti costituisce un vero e proprio
rompicapo. Scoperta dall’omonimo navigatore francese nel 1739,
ritrovata da una spedizione inglese nel 1808, fu protagonista di
un’incredibile altalena di conferme e smentite sino al 1898, quando la
nave tedesca Valdivia ne determinò scientificamente la
posizione. I Norvegesi (interessati a quelle acque per via della
caccia alle balene) vi effettuarono uno sbarco nel 1926, e nel 1928 la
dichiararono sotto la loro sovranità.(36) Problematica, invece, resta
l’esistenza di una piccola isola vicina alla Bouvet, chiamata isola
Thompson dal capitano inglese G. Norris nel 1825. (37)
E veniamo ai tentativi di
spiegazione del “fenomeno Auroras”, valutando, per ciascuno di essi,
gli elementi a favore e quelli contrari.
1)
Errore di rilevamento.- E’ la più semplice, la più naturale delle
spiegazioni. Il mare agitato, le nebbie, la strumentazione difettosa,
il poco tempo a disposizione possono aver falsato, e di molto, il
rilevamento delle coordinate geografiche, specie al tempo della
navigazione a vela. Sennonché, resta il problema di dove “spostare” le
isole viste e identificate come le Auroras. In quali altre isole
realmente esistenti bisogna identificarle? Qui s’incontrano delle
gravi difficoltà. Gli unici possibili “candidati”, per un raggio di
centinaia di chilometri, sono gli Shag Rocks, i cosiddetti Scogli Shag:
troppo piccoli e troppo spostati verso Est. Si ricordi che Hatfield
aveva riconosciuto un’unica isola; e una seconda, più piccola, alla
distanza di dieci miglia. D’altra parte, come è possibile scambiare
dei semplici scogli per delle vere isole, attraversate da colline
parzialmente coperte di neve? (38)
2)
Confusione con degli iceberg.- Anche questa è una
spiegazione semplice e quasi ovvia, data la latitudine interessata. Vi
si oppongono però due considerazioni assolutamente risolutive. La
prima è che il diario di bordo del capitano Hatfield, del Gladys,
afferma che le colline, in quel caso, non mostravano traccia di neve
(e, quindi, a maggior ragione, di ghiaccio). La seconda è che gli
iceberg non restano certo “ancorati” negli stessi luoghi, ma,
ovviamente, si spostano con notevole rapidità, trascinati dalle
correnti (39). Ora, almeno due relazioni, quella dell’Atrevida
e quella del Gladys (vergate, si badi, a novantotto anni di
distanza l’una dall’altra) localizzano le Auroras nella medesima
posizione. Possiamo immaginare un gruppo di iceberg che se ne
rimane fermo per quasi un secolo?
3)
Un miraggio.- In particolari condizioni atmosferiche (si pensi
allo spettacolo clamoroso delle Aurore polari) è possibile vedere cose
che non esistono. Il riflesso del cielo, delle nuvole può ingannare la
vista, mostrando all’orizzonte marino terre inesistenti. Strana, però,
molto strana la circostanza che diverse navi, in tempi diversi, siano
state vittime dello stesso miraggio, nel medesimo luogo. (Su questa
ipotesi, vedi anche la nota 25 del presente articolo).
4)
Frode volontaria.- E’ esclusa. Non si tratta di vaghi racconti di
balenieri, come nel caso dell’isola Dougherty o di altre pretese
isolette all’estremità meridionale del Pacifico. (40) Abbiamo invece a
che fare con le relazioni di autorevoli comandanti di diverse marine,
sia da guerra che commerciali, e con un resoconto ufficiale della
Società Idrografica spagnola. La bona fides degli interessati è
del tutto fuori discussione.
5)
Suggestione mitologica.- Il mito dei paesi leggendari, diceva
Thévenin, è antico quanto l’uomo, poiché creato, inconsciamente, dalle
sue stesse aspettative. Ed è noto che Carl Gustav Jung ha formulato
una teoria analoga per spiegare i sempre più numerosi avvistamenti di
Oggetti Volanti Non Identificati (U.F.O.) avvenuti nella seconda metà
del XX secolo (ma in realtà, antichissimi anch’essi), fenomeno, a suo
dire, legato ai materiali archetipici esistenti nell’Inconscio
Collettivo (41). Sennonché, se questa interpretazione può ammettersi
per paesi vasti e attraenti, come la Terra Australis Incognita,
ben difficile è applicarla al nostro caso. Le Auroras, di attraente,
non avevano che il nome: erano un luogo unanimemente descritto come
desolato e inospitale. Inoltre, qui non ci troviamo in presenza di
vaghe tradizioni orali, ma di una serie di avvistamenti e ricognizioni
puntuali e, queste ultime, ben documentate, alcune delle quali vennero
condotte con criteri rigorosamente scientifici e da personale di
marina altamente qualificato. Anche questa spiegazione, dunque, appare
senz’altro insostenibile.
6)
Inabissamento di isole vulcaniche.- La letteratura scientifica
documenta non pochi casi del genere: per la cosiddetta Isola Giulia o
Ferdinandea, emersa nel centro del Mediterraneo nel 1832, e che diede
addirittura origine a una disputa diplomatica fra la Gran Bretagna
(già in possesso di Malta) ed il Regno di Napoli, prima di inabissarsi
lasciando a bocca aperta i due contendenti. (42) Più spettacolare
ancora il caso dell’isola polinesiana di Falcon, nell’arcipelago delle
Tonga. Scrive l’Almagià: “Sorta nel 1877-78 sul luogo ove era prima un
banco sottomarino, elevatasi fino a 75 m. sul mare, poi distrutta
interamente dall’erosione marina (1898); riformatasi nuovamente
qualche anno dopo, scomparsa ancora nel 1913 e risorta nel 1927, in
seguito ad una violenta eruzione, sotto forma di un cono alto 110 m.
con cratere, oggi di nuovo [1961, nostra nota ] attaccato con violenza
dai flutti.” (43) Un caso ancor più recente, e documentato dal vivo da
scienziati e fotografi di ogni parte del mondo, è poi quello
dell’Isola Surtsey, emersa mediante un’eruzione vulcanica sottomarina,
33 chilometri al largo della costa meridionale dell’Islanda, nel 1963.
Oggi l’isola è pienamente consolidata e la vegetazione pioniera ne ha
già rivestito le pendici, a pochi anni dal raffreddamento della lava
incandescente. (44) Può essere stato, questo, anche il caso delle
Isole Auroras? Una serie di eruzioni vulcaniche potrebbero averle
spinte su dal fondale marino, per poi farle riemergere mano a mano che
i marosi le assalivano con estrema violenza, sgretolandole, in una
lotta titanica fra gli elementi della natura che ricorda i giorni
della creazione del mondo- lotta in cui la vittoria rimase, alfine, al
regno di Poseidone? Stando ai rilevamenti sottomarini effettuati col
radioscandaglio, è accertata l’esistenza di una dorsale sottomarina,
di origine vulcanica, che collega la piattaforma continentale
sud-americana (su cui giacciono le Isole Falkland) con la Georgia
Australe ed oltre, passando per gli Scogli Shag. Essa costituisce, in
effetti, la catena sottomarina principale collegante la Terra del
Fuoco con la Penisola Antartica e descrive un vasto arco rivolto ad
Est dello Stretto di Drake (la “via” più breve fra Sud America e
Antartide, ma non quella seguita dall’orografia sottomarina), con la
convessità rivolta all’esterno, appartiene alla grande “Cintura di
Fuoco dell’Oceano Pacifico”, il maggiore sistema vulcanico dell’intero
pianeta terrestre. Le Isole Auroras avrebbero dovuto trovarsi
esattamente sull’allineamento Isole Falkland-Georgia Australe- Sanwich
Australi-Orcadi Australi-Shetland Australi. Una regione tettonicamente
giovane, instabile, soggetta a fenomeni geologici d’imprevedibile
portata. E’ questo, dunque, il segreto delle Isole Auroras? Furono
create e distrutte alternativamente dalle forze endogene del Pianeta?
E, in tal caso, possiamo aspettarci che un giorno o l’altro, chissà
quando, riemergeranno d’improvviso, così come improvvisamente si sono
inabissate, sottraendosi allo sguardo degli uomini? Certo, la
spiegazione del sollevamento vulcanico sottomarino è, al momento, non
diciamo la più probabile, ma la meno inverosimile. Di qui a suggerire
che possa rispondere a tutti gli interrogativi rimasti in sospeso,
però, la distanza è ancora grande. I misteri della natura,
contrariamente a quanto la vulgata scientista e
ultrapositivista pretenderebbe, sono ancora ben lungi dall’essere
stati chiariti in modo soddisfacente; o almeno buona parte di essi. La
strada dell’umana conoscenza è ancora lunga e richiede umiltà e
pazienza infinite. Forse, alle generazioni che verranno, la nostra
hybris, o smisurato orgoglio, di voler capire tutto e subito, di
voler dominare ogni cosa, apparirà simile a una smania di bambini
volubili e impazienti (45): una lente deformante che s’interpone,
invisibile ma fatale, tra il nostro essere (che non è fatto di sola
percezione sensoriale o di sola ragione strumentale) e l’intima
realtà del Tutto.
FRANCESCO LAMENDOLA
NOTE
1. Le
Isole Falkland vennero scoperte, probabilmente, dal navigatore inglese
John Davis, che ne dette notizia nel 1592; nelle carte nautiche più
antiche sono semplicemente indicate come Isole Meridionali,
Southern Islands. Ricevettero il nome attuale dopo essere state
visitate, nel 1690, da un altro inglese, John Strong, in onore
dell’allora tesoriere della Marina britannica, lord Falkland; o
meglio, questo nome fu imposto al canale centrale che separa le due
isole maggiori (ancor oggi, banalmente, chiamate East e West
Falkland), e più tardi s’impose all’intero arcipelago. Inizialmente
l’isola occidentale era chiamata Pepys, dal nome del famoso diarista
Samuel Pepys, nato nel 1633 e morto nel 1703 (cfr. SAMUEL JOHNSON,
Riflessioni sugli ultimi fatti relativi alle Isole Falkland,
Milano, Adelphi, 1982, p. 36 nota). Nel 1764 vi si stabilirono alcuni
coloni francesi di Saint-Malo, facenti parte della spedizione di
Bougainville, per cui le isole furono ribattezzate Malouines.
Ritiratisi i Francesi, la colonia nel 1767 passò agli Spagnoli, che
ribattezzarono Port Louis col nome di Puerto Soledad, e tutto
l’arcipelago fu detto delle Malvinas o Malvine. Gli Inglesi,
sbarcati anch’essi nel 1764, dovettero sgombrare nel 1770 sotto la
minaccia di una squadra spagnola, e questo episodio portò Spagna e
Gran Bretagna sull’orlo di una guerra generalizzata. Fu in tale
occasione che il celebre letterato Samuel Johnson, onde esortare il
proprio governo alla moderazione, scrisse il pamphlet Riflessioni,
etc (1771), sopra citato. Gli Inglesi rioccuparono Port Egmont nel
1771, per ragioni di prestigio, salvo abbandonarlo pochi anni dopo,
nel 1774; gli Spagnoli conservarono Puerto Soledad fino alla perdita
dell’Argentina, nel 1811. Solo nel 1833 i Britannici ritornarono,
questa volta definitivamente, nonostante le proteste argentine, mai
ritirate. E’ chiaro, quindi, che accordare la preferenza al nome
Falkland o al nome Malvine ha un significato giuridico-politico e non
geografico in senso stretto. Noi useremo il primo, unicamente perché
accettato da quasi tutti i geografi (a eccezione, naturalmente, di
quelli argentini). Cfr. enc. geogr. Il Milione, Novara, De
Agostini, ediz. 1974, vol. XII, pp. 229-30; e CH. DE LA RONCIERE,
La scoperta della Terra. Esploratori e conquistatori, Torino, ed.
S.A.I.E., 1958, pp.265-266..
2.
“Non sapevamo nulla in proposito, sino a quando furono scoperte,
nell’anno 1762, dalla nave Aurora, che le battezzò con tal
nome”. Citato negli Atti della Reale Società Idrografica di Madrid,
Madrid, 1809.
3. E’
l’ultima fase della Guerra dei Sette Anni (1756-63), che vede, sui
fronti coloniali e marittimi, l’intervento spagnolo a fianco della
Francia di Luigi XV. “La distruzione della flotta francese e i colpi
subiti sui teatri di guerra coloniali indussero allora il Duca di
Choiseul, ministro di Luigi XV, a cercare la salvezza in una nuova
serie di alleanze. Veniva stretto perciò (1761) il così detto Patto di
Famiglia, per cui le quattro corti borboniche di Parigi, di Madrid, di
Napoli e di Parma si stringevano in alleanza per la mutua difesa dei
propri domini. Neppure questo bastò per arrestare i disastri francesi,
mentre viceversa coinvolgeva nella sconfitta anche la flotta e le
colonie della Spagna.” Così GIORGIO SPINI, Disegno storico della
civiltà, Roma, ed. Cremonese, 1970, vol. II, pp. 365-366.
4. Cfr:
FRANCESCO LAMENDOLA, Terra Australis Incognita, ne Il Polo,
Fermo, Ist. Geogr. Polare “S. Zavatti”, 1989, vol. 3, pp. 51-58.
5.
Vedere JEANNETTE MIRSKY, In silenzio, su una cima
del Darien, Balboa scopre il Pacifico, in I grandi esploratori,
a cura di HELEN WRIGHT e SAMUEL RAPPORT, Roma, ed. Le Maschere, s.d.
(1957 ?), pp. 337-353; GIOTTO DAINELLI, La conquista della Terra.
Storia delle esplorazioni,
Torino, U.T.E.T., 1954, pp. 246-247; A.A. V.V.,
Great Adventures that Changed the World, The Reader’s Digest
Association, 1978, pp. 90-97.
6.
Vedere GIORGIO MOSER, Alla scoperta di Magellano, Milano, F.lli
Fabbri ed., 1974, spec. pp.129-144; ALBERTO MARIA DE AGOSTINI,
Trent’anni nella Terra del Fuoco, Torino, Società Editrice
Internazionale, 1955, p. 1 e pp. 310-312; G. DAINELLI, Op. cit.,
specialmente pp. 297-300.
7. “Il
grande sogno”: così definiscono il mito della Terra Australe Incognita
gli studiosi LOUIS SPRAGUE DE CAMP-WILLY LEY, Le Terre Leggendarie,
Milano, Bompiani, 1962, pp. 145-171. Il solo L. DE CAMP è anche autore
de Il Mito di Atlantide e i continenti scomparsi, Roma, Fanucci,
1980. Si può consultare utilmente, sull’argomento, anche GRAHAM
HANCOCK, Impronte degli dèi, Milano, Corbaccio, 1996, spec. i
capp. 1, 2 e 3.
8. Cfr.
ERIC NEWBY, a cura di, Il grande libro delle esplorazioni,
Milano, Vallardi ed., 1976, pp. 88-89, 90-91.
9. La
questione se Drake si rendesse o meno conto della insularità della
Terra del Fuoco è, peraltro, complessa e ancora aperta. Scrive SILVIO
ZAVATTI, L’esplorazione dell’Antartide. Storia di un continente,
Milano, Mursia, 1974, p. 17: “una violenta tempesta respinse la nave
ammiraglia del corsaro in direzione di Mezzogiorno, fino a farle
raggiungere il 57°, o magari soltanto il 56° di latitudine
meridionale, cioè evidentemente sorpassando quella dell’ancora ignoto
Capo Horn, estrema punta del continente americano. S’egli lo abbia
veduto non risulta; ma riconobbe comunque che il Mondo Nuovo, a
mezzogiorno dello Stretto di Magellano, continuava in un complesso non
compatto di terre, ma di numerosissime isole divise da stretti
canali.” Si confronti il brano ora citato con il seguente, tratto da
O. H. K. SPATE, Storia del Pacifico. Il lago spagnolo, Torino,
Einaudi, 1987, p. 350: “Il punto cruciale è che Drake, pur non avendo
dimostrato la realtà del passaggio o stretto che oggi porta il suo
nome, si era spinto abbastanza lontano da stabilire con virtuale
certezza che i due oceani [l’Atlantico e il Pacifico, n.b ] in effetti
si incontravano per ampio e libero tratto.”
10.
Esiste, presso l’Archivio dell’Istituto Geografico De Agostini, una
incisione del 1616 che raffigura i supposti indigeni dell’isola Horn,
quando ancora non si sapeva che essa era deserta e inabitabile
(contenuta in ANGELO SOLMI, Gli esploratori del Pacifico,Novara,
I.G.D.A., 1985, intra pp. 80-81). Sono rappresentati nudi, di
corporatura alta e slanciata, con lunghe acconciature e copricapi di
piume d’uccello, come gli Arawak della regione caribica, e per di più
in un paesaggio ammantato da una ricca vegetazione tropicale, con
palme e leggere capanne di frasche. Niente a che vedere con i veri
abitanti delle isole fueghine meridionali, gli Yaghan (o Yàmana),che
erano di bassa statura e con le gambe rattrappite dalla costante
permanenza nelle canoe da pesca , per cui eran detti canoeros,
come i loro vicini occidentali, gli Alakaluf. Cfr. A. M. DE AGOSTINI,
Ande Patagoniche, Milano, Soc. Cartografica Giovanni De
Agostini, 1949, spec. pp. 59-63. L’isola di Capo Horn è stata visitata
nel 1971 dal noto alpinista WALTER BONATTI, che ne ha fatto una
descrizione, anche fotografica, per il settimanale Epoca, poi
raccolta in volume con altre, In terre lontane, Milano, Baldini
& Castoldi, 1997, pp. 239-248. Il vero paesaggio dell’isola è quanto
mai inospitale: una distesa acquitrinosa di sfagni e torbe cedevoli
con giunchi, erbe e faggi striscianti; solo nei pendii più riparati si
addensa la foresta dei faggi australi (Nothofagus) le cui
radure sono ingentilite da cuscinetti di bianche silene in fiore o
bacche di un bel colore vermiglio. Non è mai stata abitata
stabilmente, ma fino a qualche decennio fa vi si spingevano le canoe
degli Yaghan, in estate (settembre-marzo), nelle loro battute di
pesca. Uno sguardo d’insieme sui problemi relativi alla flora
dell’estremo Sud è contenuto in FRANCESCO LAMENDOLA, Il limite
antartico della vegetazione arborea, ne Il Polo, cit.,
1986, vol. 3, pp. 29-35.
11. La
carta dell’emisfero Sud di Oronzio Fineo, del 1531, è dettagliatamente
riprodotta in FRANCESCO LAMENDOLA, Mendana De Neira alla scoperta
della Terra Australe, ne Il Polo, 1990, vol. 3, pp.19-24.
Si nota chiaramente, in essa, che la Terra Australe ingloba la Terra
del Fuoco mentre, sul versante dell’Oceano Indiano, raggiunge la
latitudine del Madagascar, da cui la separa un braccio di mare poco
più ampio del Canale di Mozambico (fra il Madagascar e la costa
africana). Per quanto riguarda i problemi posti dalla carta, si veda
COLIN & DAMON WILSON, Il grande libro dei misteri irrisolti,
Roma, Newton & Compton, 2002, pp. 597-600. Essa fu uno degli elementi
che indussero il professor CHARLES HAPGOOD a formulare la sua teoria
di un’antichissima civiltà marinara, depositaria di una conoscenza
geografica e scientifica andata in massima parte perduta nei tempi
storici: Le mappe delle civiltà perdute, Roma, ed. Profondo
Rosso, 2004.
12. Il
mappamondo di Abramo Ortelio è riportato in A. SOLMI, Op. cit.,
intra pp. 88-89. Rappresenta la Terra Australe inglobante (al
solito) la Terra del Fuoco; più lontana (ma non lontanissima) dal Capo
di Buona Speranza, di quella di Oronzio Fineo di trentatre anni prima;
ed enormemente sviluppata in direzione della congiunzione fra l’Oceano
Indiano e il Pacifico, tanto da includere quella che oggi è
l’Australia.
13. Si
veda F. LAMENDOLA, Mendana De Neira alla scoperta della Terra
Australe, cit.
14. Pare
che Drake, navigando in balìa dei venti a Sud della Terra del Fuoco,
abbia scorto un’isola che denominò Elizabetha, in onore della regina
d’Inghilterra (e riportata nella carta di Hondius del 1590) che ha
dato un bel po’ da pensare ai geografi, imbarazzatissimi nel tentar
d’identificarla. Alcuni studiosi ipotizzano che Drake possa aver preso
un abbaglio, scambiando per terra ferma un iceberg o, comunque,
credendo di vedere quel che non c’era. A meno che si sia trattato del
gruppo delle minuscole Isole Diego Ramirez, che si trovano, appunto, a
Sud-Ovest di Capo Horn. Un altro possibile “candidato”, quantunque
meno probabile (e questa è una nostra ipotesi) potrebbe essere il
gruppo delle Isole Ildefonso, che si trovano sul parallelo dell’isola
Hermite (e dunque appena un po’ a nord di Capo Horn, ma sempre al
largo in direzione Ovest).
15. RENE’
THEVENIN, I Paesi leggendari, Milano, Garzanti, 1960, p.111.
16. Bouvet
De Lozier aveva al suo comando due navi, la Aigle (Aquila) e la
Marie, che non volle mettere a repentaglio con un tentativo di
sbarco fra ghiacci e nebbia. “De Lozier fu saggio; infatti quelle
masse di ghiacci galleggianti avrebbero stritolato le chiglie di legno
delle sue navi. La Aigle e la Marie non erano certo
attrezzate per le rotte polari.” Questo è il giudizio di ROGER A.
CARAS, L’Antartide,, Milano, Garzanti, 1964, p. 15.
Interessante l’intuizione, da parte del navigatore francese, che a Sud
dell’isola da lui veduta (ma non riconosciuta come tale, visto che la
chiamò semplicemente Capo della Circoncisione) doveva esservi un vero
continente, ma ghiacciato. “Egli suppose correttamente che quei
ghiacci [gli iceberg] potevano venire soltanto da una grande
massa terrestre posta a sud della muraglia che gli sbarrava la
strada”: così WALTER SULLIVAN, Alla ricerca di un continente,
Firenze, Casini ed., s.d. (1958 ?), p. 26.
17. Non
possiamo non ricordare, qui, l’ottimo libro di SILVIO ZAVATTI, I
viaggi del capitano James Cook, Milano, ed. Schwarz, 1960,
notevole soprattutto per la chiarezza didattica ed espositiva e
testimonianza della vastità d’interessi (non solo limitati alle
questioni polari) del fondatore dell’Istituto Geografico Polare di
Fermo.
18. Sulle
vicende relative a queste “isole fantasma” dell’estremo Pacifico
australe, si veda F: LAMENDOLA, Terra Australis Incognita, cit.
19. La
Marina spagnola, negli ultimi decenni del XVIII secolo, fece un
notevole sforzo organizzativo per colmare il divario tecnico e
professionale che la separava dalle altre grandi Marine del tempo. Una
pagina luminosa di questa volontà di rinnovamento è costituita dal
viaggio quinquennale di esplorazione (1789-94) affidato a un brillante
comandante italiano, il marchese Alessandro Malaspina e condotto dalle
due corvette Descubierta e Atrevida. Ma, al ritorno in
Spagna, per i soliti intrighi di corte fu imprigionato e liberato dopo
ben sette anni, per intercessione di Napoleone. Una ricca bibliografia
in proposito è contenuta in SERGIO ZAVATTI, Dizionario degli
esploratori, Milano, Feltrinelli, 1967, p. 182. Tra le biografie
di Malaspina in lingua italiana, segnaliamo ANGELO MARTELLI,
Alessandro Malaspina, Parma, Gruppo Agricolo-Culturale “A.
Bizzozero”, 1991.
20.
Atti della Reale Società Idrografica di Madrid, cit.
21. La
rivolta indiana sconvolse dalle fondamenta il dominio spagnolo sul
Perù e sull’Alto Perù (l’odierna Bolivia) tra il 1780 e il 1782. Il
suo capo carismatico, José Gabriel Condorcanqui, che si proclamava
discendente diretto dell’ultimo sovrano Inca, Tupac Amaru, fu
squartato sulla pubblica piazza di Cuzco, dopo aver dovuto assistere
al supplizio della moglie, dei figli e degli amici e compagni di
lotta. Cfr. FRANCESCO LAMENDOLA, Tupac Amaru II: la voce della
rivolta, ne Il calendario del popolo, riv: mensile, Milano,
Teti ed., Aprile 1993, pp. 15.994-16.000. Su questo drammatico
episodio esiste una famosa poesia del notevole poeta peruviano
ALEJANDRO ROMUALDO, Poesia Integra, Lima, ed. Viva Voz, pp.
115-16; la traduzione italiana è contenuta in MARCELO RAVONI-ANTONIO
PORTA, Poeti ispano americani contemporanei, Milano,
Feltrinelli, 1970, pp. 398-400. Cfr. anche FRANCESCO LAMENDOLA,
Voci di libertà dei popoli oppressi, Casalvelino Scalo, ed:
Galzerano, 1987, pp.18-19.
22. Per
quasi tutta la durata del suo Impero coloniale, la Spagna era stata
tormentata non solo dagli attacchi delle altre potenze marittime ai
suoi possedimenti, ma anche dal fenomeno della pirateria, che
imperversò specialmente nel Mar dei Caraibi: arteria vitale per la
Marina iberica, i cui galeoni carichi dei metalli preziosi del Messico
(e, per la via dell’istmo di Panama, anche del Perù) dovevano
forzatamente transitare attraverso lo Stretto di Florida o il Canale
dello Yucatàn. Cfr., tra le molte opere sull’argomento, MENDEL
PETERSON, la flotta dell’oro, Milano, Rizzoli, 1979.
23.
Documento riportato in PETER KOLOSIMO, Non è terrestre, Milano,
Sugar, 1968, pp. 261-62; e in PETER HAINING, Antichi misteri,
Milano, Sperling & Kupfer, 1978, p. 125.
24. Il
caso, del resto, non è poi così eccezionale. Si pensi alle due isole
maggiori della Nuova Zelanda, denominate semplicemente Isola del Nord
e Isola del Sud; alle già citate due isole maggiori delle Falkland,
Orientale e Occidentale; alle due maggiori dell’Arcipelago Juan
Fernàndez, oggi chiamate Robinson Crusoe e Alejandro Selkirk, ma per
secoli conosciute come Mas a Tierra (ossia “più vicina alla
terraferma” [del Sud America], dunque più orientale), e Mas a Fuera
(“più al largo”, e perciò più occidentale). Cfr. F: LAMENDOLA, La
flora sub-antartica di Mas a Fuera, ne Il Polo, cit., 1989,
vol. 1, pp. 34-39; e RODRIGO DE CASTRO, Le isole di Robinson,
in Atlante, mensile dell’I.G.D.A. di Novara, , 1992, nr. 11,
pp. 26-33.
25. Pare
che Bustamente vedesse qualche cosa d’altro, oltre alle Auroras, ma la
sua relazione si fa su questo punto così confusa, che non è possibile
capire esattamente di cosa si trattasse. Scrive P. KOLOSIMO,, Op.
cit., p.262 “Nella relazione stesa dalla spedizione dell’Atrevida
e dovuta con ogni probabilità al comandante, capitano J. De Bustamente,
si legge d’altre isole avvistate in quei paraggi; ma né di queste
ultime né delle Auroras venne più trovata traccia in seguito. Che si
sia trattato d’un miraggio, come alcuni sostengono, è assurdo: i
rapporti di cui disponiamo sono troppo coscienziosi e dettagliati, e
quelli a cui abbiamo accennato non sono i soli viaggiatori che abbiano
avvistato e costeggiato quei lembi di terra.”
26. Nella
Encyclopaedia Britannica, ed. 1961, non c’è una “voce” biografica
dedicata a James Weddel, ma solo una citazione a proposito delle
navigazioni antartiche, vol. II, p. 16d, di FRANK
DEBENHAM-JOHN DOUGLAS MORRISON BLYTH, Antarctic Regions.
Exploration and Discovery. Ancora più sbrigativa The American
Peoples Encyclopedia, ediz. 1968, vol:I, p. 507, articolo
di PAUL A. SIPLE, Antarctica, Exploration.
27.
“Weddell denominò questo mare dal Re Giorgio IV. Fu rinominato Mare
di Weddell nel 1900. Nessuna penetrazione ulteriore verso sud fu fatta
in esso fino al viaggio di Shackleton del 1914-16. Così E. NEWBY,
Op. cit.,p. 249b.
28. Per
dare un’idea di quale ritmo avesse preso lo sterminio indiscriminato
della fauna antartica da parte di quei balenieri e cacciatori di
foche, cui pure dobbiamo pagine importanti dell’esplorazione delle
regioni antartiche, citiamo il seguente passo di UGO SCAIONI, La
Rivoluzione industriale, Milano, Mondadori, 1976, pp. 94-95: “In
circa 4 anni, dal 1810 al 1813, vennero uccisi circa duecentomila
esemplari di una specie di otaria che popolava l’isola Macquarie e
che, per sua sfortuna, era ricoperta da una magnifica pelliccia. La
tecnica di caccia era poco raffinata, ma efficace data la mitezza dei
mammiferi: si entrava in mezzo al branco e si colpivano gli animali
con bastoni, fiocine, arpioni e scuri. Appena 7 anni più tardi, nel
1820, delle centinaia di migliaia di otarie che da secoli avevano
dimorato sull’isola non esistevano che milioni di ossa sparse lungo le
gelide spiagge. Il trattamento riservato alle quattro specie di
pinguini delle isole Crozet e Kerguelen fu ancora più sbrigativo. Dopo
essere state massacrate a colpi di bastone, le bestie, fornite di
abbondanti riserve di grasso, venivano con raccapricciante cinismo
spremute sotto rudimentali torchi per ricavarne olio, o
addirittura usate tali e quali come combustibile per alimentare i
fuochi degli accampamenti. Agli albatros di Nuova Amsterdam fu invece
fatale la moda di applicare alle pipe un cannello ricavato da un loro
osso. Lo sterminio delle foche e dei pinguini obbedì a ragioni
economiche: quello degli albatros servì soltanto a riempire il tempo
libero dei cacciatori.”
29.
JAMES WEDDELL, Voyage Towards the South Pole, Londra,
1825; trad: in P: HAINING,
Op .cit., p.
216.
30. P.
HAINING, Supra. Cfr. anche A. SOLMI,, Op. cit., p. 216:
“La sua straordinaria navigazione,conosciuta confusamente negli
ambienti letterari, fu una delle fonti che diedero a Edgar Poe lo
spunto per scrivere, nel 1837, il celebre Gordon Pym.” Un’altra
fonte, interamente letteraria,fu La ballata del vecchio marinaio
di S. T. Coleridge (cfr. ROBERT E. SPILLER, Literary History of the
United States, New York, Macmillan, 1966, p. 329).
31.
Citazione da RUPERT T. GOULD, Oddities, Londra, 1928, e
riportata in P. HAINING, Op. cit., pp. 126-127.
32. Dal
Nautical Magazine, 1893..
33.
Riportato in R.T.GOULD, Op. cit.; e inoltre da P: KOLOSIMO,
Cit., pp. 262-63, e da P. HAINING, Cit., p. 127.
34. La
posizione dell’isola Saxemberg, secondo le coordinate fornite da
Lindeman nel 1670, era la seguente: 30° 40’ Sud, e 19° 30’ Ovest;
dunque a circa 1.300 km. a nord –ovest di Tristan da Cunha. Questo è
coerente con la notizia che una lussureggiante vegetazione
sub-tropicale ne rivestiva le pendici: il suo clima doveva essere una
via di mezzo fra quello di Tristan e quello di Sant’Elena, anticamente
ricoperta da fittissimi boschi (poi distrutti dall’intervento
dell’uomo e, soprattutto, dall’introduzione della capra).
35. La
biografia di questo navigatore non è molto chiara. Pare che fosse di
origine inglese (ma, si direbbe, con ascendenze francesi) e il suo
nome era Anthony de La Roche, “spagnolizzato”, dopo che si fu
stabilito a Cadice per motivi di commercio, in Antonio de La Roche.
Rientrato in Gran Bretagna, allorché gli giunsero notizie più precise
sulla rotta del Capo Horn, armò due navi e con esse si portò nel
Pacifico. Sulla via del ritorno, appunto per la rotta del Capo Horn,
le tempeste lo trascinarono in vista di quella che era, probabilmente,
la Georgia Australe. Cfr. S. ZAVATTI, L’esplorazione dell’Antartide,
cit., p. 20. Secondo R.A.CARAS, L’Antartide, cit., “esistono
prove concrete che il mercante inglese Antonio de La Roche scoprì nel
1675 la Georgia Australe e vi riparò con due navi – di cui non ci è
pervenuto il nome –mentre cercava di sfuggire a una furiosa tempesta”
(p. 14). Per dovere di completezza ricordiamo che alcuni studiosi
ipotizzano che il primo scopritore della Georgia Australe sia stato
Amerigo Vespucci, nel 1502; mancano, però, prove certe al riguardo.
Quanto all’Isola Grande, posta sul 45° parallelo Sud, de La Roche la
descrisse come “notevolmente grande e piacevole, con un buon porto ad
oriente” (cit. da ELLIOT O’DONNELL, Phantom Islands of the Atlantic,
in Prediction, giugno 1946. Ma P. HAINING, Op. cit., p.
127, osserva in proposito: “Sfortunatamente gli Spagnoli non fornirono
alcun punto di riferimento sufficientemente esatto a proposito di
quest’isola e, benché fosse stata indicata sulle carte geografiche
dell’epoca, si levò contro di essa una generale opposizione dopo che
diverse spedizioni non erano riuscite a trovare nulla. Si ritiene
adesso che l’Isola Grande non fosse altro che un promontorio del
continente sudamericano.”
36. La
prima idea di stabilire una stazione scientifica e meteorologica
permanente sull’Isola Bouvet fu di Silvio Zavatti, che la raggiunse
nel 1959 con Giorgio Costanzo e vi scoprì una nuova baia (la Baia
Tupini, in onore di un ministro italiano). Ma l’Italia, che non aveva
aderito ancora al Trattato Antartico, non appoggiò l’iniziativa, che
dovette arenarsi. Vedi S. ZAVATTI, Viaggio all’isola Bouvet,
Bologna, Malipiero,1960. Come è noto, la prima base permanente
italiana in Antartide, nella Baia di Terra Nova, è entrata in funzione
nell’estate 1987-88. Dal 1981 l’Italia ha chiesto di aderire al
Trattato e ne è divenuta membro consultivo dal 5 ottobre 1987: Cfr.
JOHN MAY, Antartide, Milano, Giorgio Mondadori, 1988, p. 120.
La pionieristica iniziativa di Zavatti è ricordata da GIANLUCA
FRINCHILLUCCI, Silvio Zavatti e l’esplorazione dell’isola Bouvet,
ne Il Polo, cit., 2002, vol.1-2, pp. 69-73.
37.
L’isola Thompson è al centro di un notevole romanzo dello scrittore
sudafricano di lingua inglese GEOFFREY JENKINS, A Grue of Ice
(tradotto in italiano con il titolo Mare, Vento, Ghiacci,
Milano, Longanesi & C., 1971). Nella premessa, l’Autore avverte:
“L’isola Thompson esiste. La sua posizione, tuttavia, nelle acque
dell’Antartide sferzate dalle tempeste, a circa milleseicento miglia a
sud della punta più meridionale del continente africano, costituisce
uno dei grandi misteri del mare. L’isola fu scoperta dal capitano
George Norris, comandante del battello britannico Sprightly
adibito alla caccia alle foche, il 13 dicembre 1825. Sessant’anni dopo
l’isola venne nuovamente avvistata da un capitano americano, Joseph J.
Fuller. Dal tempo della sua scoperta a opera di Norris, parecchi
famosi marinai e spedizioni equipaggiate di tutto punto sono andati
alla ricerca di quell’isola, che però, se si eccettua l’avvistamento
fortunoso del capitano Fuller, non venne più in seguito localizzata.
Il capitano Norris, non soltanto disegnò una carta dell’isola Thompson,
ma ne tratteggiò degli schizzi da una decina di diverse angolazioni.
Ho avuto modo di esaminare quella mappa e quegli schizzi e anche di
leggere il testo della relazione verbale fatta da Fuller ai suoi tempi
all’American Frankin Institute.”
38. Per
quanto riguarda la neve, osserviamo che la relazione di Bustamante
(1794) descrive le Auroras come “in parte coperte di neve”; mentre in
quella di Hatfield (1892) si dice testualmente: “le colline non
avevano traccia di neve”; mentre nel giornale di bordo della Helen
Baird (1856) è scritto che il capitano in seconda “vide le Auroras
coperte di neve”. Ora, la discordanza tra questi osservatori si può
facilmente spiegare con le differenze climatiche stagionali: gli uni
videro le Auroras in inverno (da marzo a settembre, nell’emisfero
Sud), e quindi innevate; gli altri in estate (settembre-marzo),
sgombre di neve. Né deve stupire la totale assenza di manto nevoso,
sia pure nel colmo dei mesi estivi. Le Auroras dovevano trovarsi alla
latitudine delle Falkland e avere, pertanto, un clima simile: fresco e
piovoso d’estate, ma senza neve; e simile doveva apparire anche
l’orografia, poiché si parla sempre e solo di colline, mai di vere
montagne.
39.
Certo, in linea di massima non è sempre agevole distinguere un grande
iceberg tabulare (che può avere dimensioni enormi: nel 1947, a
sud dell’Australia, ne fu avvistato uno che aveva una superficie
stimata di circa 25.000 kmq., ossia pari a quella della Sicilia!) da
una terra emersa. Valgano per tutti il caso della “Terra Sabrina”,
vista da Biscoe nel 1839; e quello, ancor più discusso, della “ Terra
di Bradley” (nell’Artico, a 84° 50’ Nord), scorta da Frederick A. Cook,
colui che contende a Robert Peary la conquista del Polo Nord, nel
1908.
40.
L’isola Dougherty, scoperta dal baleniere americano Swain nel 1800, a
circa 60° di latitudine Sud e 120° di longitudine Ovest, fu rivista
saltuariamente da alcune navi, e in particolare dal capitano
britannico Dougherty, nel 1841, che le diede il proprio nome.
Riconosciuta ancora nel 1859 e nel 1866, scomparve poi
definitivamente. Scrive R. THEVENIN, Op. cit., p. 86: “Infatti
una nave incrociò e bordeggiò su una superficie di 250 chilometri
intorno al punto indicato, ma invano. Nel 1904, Scott fa dei sondaggi
nello stesso luogo e vi trova una profondità di più di 4.000 metri!”.
Cfr. F. LAMENDOLA, Terra Australis Incognita, cit., p. 56.
41. Il
grande psicologo svizzero espose tali concetti in un’opera
espressamente dedicata al fenomeno dei cosiddetti dischi volanti:
Di cose che si vedono nel cielo. Vale la pena di riportare alcune
righe del saggio di BARBARA HANNAH, Vita e opere di C. G. Jung,
Milano, Rusconi, 1996, pp. 468-469: “In effetti, Jung era assai meno
interessato al problema della loro eventuale esistenza fisica, che
non al fatto innegabile che molte persone, da un capo all’altro del
mondo, scorgevano in cielo oggetti di forma tondeggiante… Lo
scetticismo di Jung circa la possibile realtà fisica dei dischi
volanti andò attenuandosi a mano a mano che venivano rese note altre
testimonianze degne di fede; ma, scrive nell’introduzione, come
psicologo non sono qualificato a dare un contributo utile al problema
della realtà fisica degli UFO, e non posso che limitarmi al loro
indubbio aspetto psichico.”
42. Cfr.
GIUSEPPE NANGERONI, Geografia e Geologia, Milano-Varese,
Istituto. Editoriale Cisalpino, 1968, p. 246.
43. Cfr.
ROBERTO ALMAGIA’, Fondamenti di Geografia generale, Roma,
ed.:Cremonese, 1961, vol. I, p. 222
44. –Cfr:
HAROUN TAZIEFF, E l’Inferno venne a galla, su Atlante,
cit., 1970, nr. 10, pp. 26-33.
45. Cfr.
PLATONE, Timeo, 23b e 23e: “Dunque queste vostre genealogie che
hai ora esposto, Solone, sono poco diverse dalle favole dei bambini,
perché in primo luogo voi ricordate un solo diluvio della terra,
mentre in precedenza ve ne sono stati molti, e in secondo luogo non
sapete che nella vostra regione, presso di voi, ha avuto origine la
stirpe più onorevole e più nobile di uomini…vissuti novemila anni fa”
(tra. di E. PEGONE, in Platone. Tutte le opere, Roma, Newton,
1997, vol. IV, pp.546-547.
Francesco Lamendola
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