Madeira
1999 (già Azzorre 1999) 31/7/99 - 4/9/99 |
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Le
impressioni di un partecipante |
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"Nove giorni in Atlantico, sei pagine per il mio amico Dario(Cadrega)"
Alle 18.00 atterravo a Faro. Un aeroporto piccolo, simile a quello
di Cagliari. Anche qui sali incomprensibilmente su un autobus che
ti scaricherà 30 metri più in là. I miei bagagli sono rimasti a
Lisbona e se devo credere all'addetto al lost and found, domani
mattina ci saranno consegnati direttamente a domicilio. Sull'Opel
della Hertz il mio umore comincia a volgere da cattivo a pessimo
e credo che la responsabilità sia da attribuire a quel testa di
cazzo di Dario che, durante l'intero percorso, continua a ripetermi
o che 'non c'è problema' o che 'fra poco arriveranno'. Ho inutilmente
cercato di spiegargli che non è una questione di principio, ma che
io dopo una doccia ho la pretesa di una maglietta pulita, e di ....
Mi ha interrotto per dirmi che mi avrebbe ceduto una delle sue.
Ma quali sue? Ma che va dicendo? Ma se anche i suoi bagagli sono
rimasti a Lisbona! Questo l'ho pensato ma non l'ho detto. Ho deciso
di non parlargli più.
Alla stregua di un dolce mi sono affogato in due bicchieri di Porto
e dopo cena mi era tornato il sorriso. A mezzanotte eravamo di ritorno
in albergo. C'era un messaggio della TAP: i bagagli erano arrivati
e per le 8.30 del giorno dopo ci sarebbero stati consegnati. Ho
rifatto pace con Dario senza comunicarglielo nonostante il suo vittorioso
'che t'avevo detto?'.
Alle otto eravamo svegli. La stanza disponeva di un terrazzino
che si affacciava sulla città vecchia a ridosso del porticciolo.
Sulla porta principale (forse romana) una cicogna aveva edificato
il suo nido. Una brezza marina, bassa e tesa, metteva ordine in
rada filando in un senso solo tutte le imbarcazioni che vi avevano
trovato riparo. Il cielo era terso e azzurro come nelle nostre giornate
di tramontana. L'incidente di ieri sembrava lontano e aspettavo
il furgone della TAP come un ospite a cena.
Alle undici e trenta avevo collezionato ventitré chiamate di protesta
all'aeroporto. Ad ogni risposta l'addetto dello stand found, sempre
lo stesso, mi assicurava che i bagagli erano già in viaggio sul
furgone da ben dieci minuti. Alle dodici e trenta, con quattro ore
di ritardo, erano finalmente lì. Dario, come se lui potesse vantarne
qualche merito, mi ha di nuovo rifilato il suo: 'che t'avevo detto'.
Abbiamo iniziato i nostri giri e preso contatto con quella estremità
sud del Portogallo. L'impatto con i portoghesi è buono, assomigliano
ai nostri molisani: un po' corti ma ben piantati a terra. Sembrano
burini. Cortesi e educati parlano a bassa voce e sorridono difficilmente.
A Renato e Dario si sono aggiunti nel frattempo Emilio e Pierfrancesco
che con me fanno cinque. Dobbiamo ritirare bagagli e attrezzature
provenienti da Milano, prendere possesso della barca e costituire
la cambusa. Sembrano stupidaggini ma ci metteremo due giorni pieni.
La barca è splendida. Un Bavaria 50 piedi di nuovissima costruzione.
E' al suo primo viaggio. In serata arrivano i tre milanesi e l'ultimo
romano. Spinone, Mariella, Cristina (che poi non è di Milano
ma di Lugano) e Pietro. L'equipaggio è al completo. Ceniamo al porto.
Io ordino sardine alla brace, le più grosse che avessi mai visto.
Dario dopo aver elogiato per tutto il giorno il baccalà locale e
dopo averlo insistentemente raccomandato a tutti, ordina, nello
stupore generale, un'orata ai ferri. Le mie sardine sono deliziose.
Non ho ancora familiarizzato con gli altri e questo mi permette
di gustarle in silenzio.
In barca si definiscono le regole. Il comandante è lui, Spinone.
Fissa la sveglia, attribuisce le cuccette, i compiti, i turni. La
cosa ha qualcosa di grottesco ma forse è giusto così. Io
e Dario dormiamo nella stessa cabina. E' uno spazio di un metro
e venti per due dove trovano spazio due cuccette sovrapposte e tre
piccoli armadietti. Un oblò sulla tuga garantisce l'aerazione. A
fatica riusciamo a stivare i nostri bagagli. Dario dorme sopra,
io sotto. Prima d'addormentarci abbiamo rifatto il verso al comandante
e riso come a scuola.
Alle sette e trenta Spinone ha urlato un buongiorno milanese,
che suonava più come una minaccia che come un augurio, e ci
ha informato che la toilette di poppa a sinistra era libera
anche se nel frattempo era stata già occupata da Renato. Mezz'ora
dopo eravamo seduti in un bar, una colazione di lavoro. Ad
ogni membro dell'equipaggio il comandante ha consegnato un
foglio dattiloscritto sul quale erano riportati i nostri compiti
del giorno. La barca sarà rivoltata sottosopra. Ogni bullone
sarà stretto, ogni cima tesata, ogni angolo verificato. L'impianto
elettrico e quello idraulico saranno sottoposti ad ogni prova
e tensione. A Renato, Dario e a me toccano le operazioni a
terra: la cambusa e una infinità di incombenze che ci costeranno
più di 300 chilometri, su e giù, con la station wagon a noleggio.
Nei nostri ripetuti viaggi fra il porto di Mura, dove siamo
ormeggiati, e la cittadina di Faro la radio di bordo ci sommerge
di musica locale: una ininterrotta lagna che ritengo sia il
'Fado'. Dario accompagna la melodia, come se la conoscesse
con parole sussurrate e incomprensibili ai più. Io che a lui
sono abituato non ho avuto difficoltà a
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riconoscere, in un volgare adattamento in finto portoghese, i testi
di: 'U Surdato Innamorato', 'Reginella' e 'Piscatore du Mare a Posillico'.
A sera siamo sfiniti e non vediamo l'ora di sederci a tavola. Nel
breve tragitto che ci separa dal ristorante, Dario, come se non
fosse esistito il giorno prima, propone a tutti il baccalà con ceci
e riso. A suo dire fa bene a chi va per mare. Io sordo ai suoi consigli
ordinerò le mie sarde. Lui, senza più stupire nessuno, pure. Io
rinuncio a capirlo. Gli altri pure.
Il mattino seguente abbiamo completato la cambusa. Un milione e
ottocentomila lire di spesa. Su molti acquisti non ero e rimango
poco convinto, ma mi sono attenuto alle regole. Dario no. Con un
blitz ha inserito nella lista il grano e il riso basmati.
La navigazione inizierà solo nel pomeriggio non prima di aver organizzato,
tutti insieme, le attrezzature di salvataggio in caso di naufragio
e mimato l'abbandono della nave. Dalla barca accanto, un gruppo
di olandesi ci guarda esterrefatto.
Si parte. Il fanale rosso mi sfila a destra, sono in Atlantico.
Il mare non è proprio una tavola e il vento, debole in porto, qui
è bello teso e picchia forte sulle vele. Mi trovo rannicchiato in
un angolo del pozzetto, la sigaretta spenta fra le dita, mentre
mastico un travel gum sperando che non se ne accorga nessuno. Da
un filo di saliva che pende dall'angolo della bocca immobile di
Dario, capisco che invece di masticarla lui sta cercando di succhiarla
pur di non dare nell'occhio. Costeggiamo la costa sud del Portogallo
a poche miglia da terra. Pietro, che è di Roma e ci tiene a farcelo
sentire, decanta il paesaggio e cerca di attaccare bottone. L'unica
cosa che mi viene voglia di fare è di sputargli in faccia la gomma,
che con il panico che mi cresce, sta aumentando di volume e rischia
di soffocarmi.
Dopo due ore di navigazione Cristina richiama l'attenzione degli
altri (Dario ed io ovviamente esclusi) sulla testa d'albero. Si
muove troppo. Oscilla da prua verso poppa ad ogni colpo d'onda.
Come il mio stomaco d'altronde. E' un problema di poco conto (l'albero,
ovviamente, non certo il mio stomaco) ma che non si può risolvere
in navigazione. Bisogna rientrare in porto. Sono felice ma non lo
do a vedere. Cerco lo sguardo di Dario ma non lo trovo. Tiene gli
occhi chiusi in raccoglimento, molto probabilmente anche lui sta
ringraziando il cielo.
Ormai sono in mare da tre giorni, solo onde intorno a me. Abbiamo
superato il Capo di San Vicente alle venti di martedì. A mezzanotte
montavo di turno insieme a Spinone e Pierfrancesco. Le ultime luci
della costa si erano da poco spente alla mia vista insieme al segnale
del mio cellulare. Le onde, liberate dalla costrizione costiera,
si gonfiano nel buio e sembrano frutto di un respiro profondo e
prolungato. La barca le accompagna. Navighiamo di bolina da più
di dieci ore. La rotta è di 170 gradi. Per tenerla tesiamo le vele.
Una cosa che capisci subito quando ti prende il mal di mare è che
hai paura di morire. Con il passare del tempo e mentre ti aumenta,
hai paura di non morire. Combatterlo è impossibile, puoi solo assecondarlo
e cercare così di tenerlo a bada. Un poco mi aiuta un cerotto che
mi sono incollato dietro l'orecchio. Alcuni stratagemmi li impari
istintivamente. La posizione migliore è quella supina, devi mangiare
poco (per niente è ancora meglio) e bere pochissimo. Come evitare
accuratamente la dinette o comunque il sottocoperta se non per dormire.
I turni non sono massacranti, due di quattro ore e uno di due.
Siamo organizzati a gruppi di tre in maniera fissa. Nel mio sono
insieme a Spinone e Pierfrancesco, il più giovane dell'equipaggio,
ha 22 anni. Quando ti tocca sei responsabile di tutto ciò che avviene
sul ponte. Mantieni per quanto possibile la rotta, adegui la velatura,
viri di bordo (a proposito navighiamo ancora di bolina alla ricerca
dell'aliseo portoghese che probabilmente soffia su altre rotte).
Le decisioni le prendono gli esperti, già nel sottocoperta intorno
al tavolo di carteggio e della strumentazione che io evito come
la peste. Anche il più blando tentativo di mettere a fuoco, con
questo mare, una scritta su quelle apparecchiature può essere origine
di malesseri inenarrabili. Mi ci accosterò qualche volta solo per
leggere quante miglia abbiamo percorso e quante ne mancano alla
meta.
Viaggiare di Bolina per me non è un'esperienza nuova, ma farlo
per cinque giorni ininterrottamente in Atlantico sì! E' come entrare
in curva bassa in moto e rimanerci all'infinito. Vivo pendente da
più di cento ore, in un senso o nell'altro. Dipende dal bordo. A
questa posizione innaturale devi sommare un ulteriore sforzo che
è quello di compensare l'effetto dell'onda (qui sono alte) quando
ti passa sotto. Peso in avanti in salita, peso indietro in discesa.
Se perdi il ritmo ti fai male. A me è successo spesso. Quando dormi,
molto dipende dal bordo di navigazione. Se la tua cuccetta è in
quel momento sul lato sottovento, dormi con metà corpo sul materassino
mentre l'altra è schiacciata sulla parete laterale della tua cabina.
Quando la barca vira e navighi dal lato aperto della cuccetta, o
finisci a terra o, se riesci a sentire il 'viriamo' che mandano
dal ponte, devi velocemente girarti e puntare i piedi sulla parete
opposta e dormire puntellato, fino al prossimo bordo, quasi seduto.
Sembra difficilissimo, anzi lo è, ma, non so come, ti ci abitui.
Forse perché nei primi giorni quando non lavoravo dormivo.
Non vedo Dario da tre giorni. Praticamente da quando siamo partiti.
A dire la verità lo intravedo nei cambi di turno. Lui capita dopo
il mio e sono io a svegliarlo. E' sempre tutto rosso e madido di
sudore. Le sue conoscenze esoteriche sul mal di mare si sono dimostrate
un vero fiasco. Soffre da cani, ma in silenzio. E' digiuno dalla
partenza. Dice di nutrirsi di integratori naturali (pasticche di
Supradin, ne ho trovati tre astucci vuoti) alternati a capsule di
melatonina che secondo lui lo rimetteranno in sesto alla svelta.
perché poi? Ha già saltato qualche turno di guardia fra la benevolenza
generale. Oggi l'ho costretto a cibarsi come un cristiano che soffre
il mal di mare (pane secco) e a bere un po' di tè. Nel breve momento
di lucidità che ne è seguito ha raggiunto un compromesso con se
stesso: parteciperà alla vita di bordo purché sdraiato (una specie
di Barone Supino anziché Rampante). Questo significa che se non
è di turno sta in cuccetta a dormire mentre se è di turno sta in
pozzetto, a dormire.
Il turno peggiore è quello da mezzanotte alle quattro del mattino.
Il più bello è quello successivo. Viaggiamo verso ovest e l'alba
ci prende alle spalle. Per me è corroborante. Spinone timona per
la prima ora, ci fa calibrare le vele e di solito si rifugia al
tavolo da carteggio a fare i suoi calcoli e bere una tisana. Lascio
Cico (Pierfrancesco) divertirsi un poco e quando intuisco che è
l'ora gli sfilo il timone. Lui ne approfitta per dormire sdraiato
sulla panca del pozzetto e finalmente rimango solo. Mi piace guardarmi
intorno. L'orizzonte è libero e tondo a 360 gradi. Onde, cielo,
qualche nuvola, e creste bianche qua e là. Mano a mano che la luce
sale il cerchio d'orizzonte comincia lentamente a schiarirsi fino
a circondarmi. Mi stupisce pensare che tanta parte di mare si offra
al mio sguardo in maniera così esclusiva. Da racchiuso e rattrappito
mi distendo. Governo in piedi. Quando sono sazio sveglio Cico e
comincio a raccontargli barzellette o gli imito il resto dell'equipaggio.
Si diverte tanto. Spesso nel corso della giornata prova a richiedermi
qualche imitazione. Non una parola, solo all'alba.
Al quinto giorno il vento è rinforzato e con lui il mare. Soffia
da ovest invece che da nord est. Ci è contrario, sembra respingerci.
Percorriamo più di 100 miglia al giorno ma sulla rotta effettiva
sono appena settanta. Lo scafo si solleva di prua e atterra di pancia
con un rumore sordo e allarmante da più di 36 ore. Spinone è rimasto
vestito con la cerata dal suo turno precedente e non si è tolto
nemmeno il salvagente. Anche questo è allarmante. Chi sta fuori
è rigorosamente agganciato ad una cima che corre lungo tutto il
ponte, da poppa a prua, su entrambi i lati e che ha la funzione
di mancorrente di sicurezza. Ci sono trentotto nodi e le vele sono
state ulteriormente ridotte. Aspettiamo il prossimo bollettino per
decidere cosa fare. Non promette nulla di buono. Vento in aumento
nel nostro quadrante con tendenza ad aumentare ulteriormente. Spinone
e Renato fanno i conti. Si consultano con gli altri (io e Dario
sempre esclusi). Per proseguire bisognerebbe cambiare rotta e sceglierne
una meno stretta e stressante. Bene che vada, per arrivare alla
meta, ci vogliono almeno altri 7 giorni. Non è possibile. Nel rammarico
comune si decide di interrompere la corsa. Si vira di 150 gradi.
Il vento è di colpo a poppa e la prua ad Est. Si torna a casa. Le
Azzorre non ci faranno gridare terra. Le Isole Felici dei romani
sono alle nostre spalle.
In compenso, la barca, come d'incanto, è in assetto orizzontale.
Onde alte e gonfie ci passano sotto ma sembrano volerci spingere
bonariamente, anche se qualcuna mette paura. Si lascano le vele,
ci liberiamo dai moschettoni di sicurezza, Si riparla di cibo e
si fa vita di pozzetto. Dario finalmente si affaccia dalla tuga
fuori turno, accolto da un applauso sincero. Decide di occupare
il suo tempo libero dedicandosi alla pesca. Ripete per cento volte
"Stasera Pesce" mentre armeggia, sicuro, fra fili di nylon, girelle,
piombi e rapala (così si chiamano le variopinte esche a forma di
pesce legate all'estremità della traina). In poche ore riesce a
disperdere in mare oltre metà della preziosa e costosa collezione
di esche incautamente prestatagli da Marco Leter. Con il sesto pesce
finto terminano anche i piombi a sua disposizione. Il settimo rapala,
il più bello, lungo più di un palmo, privo di zavorra rimbalzerà
a lungo nella nostra scia. Sembravamo inseguiti da un pesce volante.
Povero Dario, il momento peggiore per lui era la vestizione per
i turni notturni. Non riuscendo a rimettere i vestiti nello stipetto,
accumulava tutto sulla cuccetta che si andava così rimpicciolendo
di giorno in giorno. Quando toccava a lui cominciava a buttare dall'alto
i vari pezzi che gli servivano sfilandoseli faticosamente da sotto.
Si calava dal letto e, come un barbone, trascinava il suo fagotto
fino al divano della dinette. Lo guardavo con tenerezza infilarsi
un gambale della cerata e sdraiarsi un minuto per riprendere fiato,
infilarsi il secondo e sdraiarsi per un altro minuto, lisciare la
manica della giacca e sdraiarsi ugualmente per fermare la vertigine.
Mi sarebbe piaciuto aiutarlo ma rimanevo anch'io immobilizzato dalla
sua stessa vertigine. Devo dire, però, che se lui piangeva io non
ridevo di certo. Comunicavamo forzatamente poco. Per non perdere
contatto avevamo trovato una maniera semplice e sintetica. Di tanto
in tanto mi impegnavo a leggere velocemente gli strumenti di bordo
e entravo in cuccetta per comunicargli quante miglia avevamo percorso
e quante altre ne mancavano ancora. Devo dire che queste ultime
erano sempre di più. Lui allora apriva un occhio e, come nella barzelletta
di Annette, mi rispondeva rauco '... annamo bene ...'.
Dado
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